Il mondo di Sally

L'importante non è cosa guardi, ma cosa vedi
 
Il mondo di Sally

Martedì 12 agosto 2014: Salisbury Cathedral – Stonehenge – Cerne Abbas Giant – Chesil Beach

La colazione full English è un po’ meno gustosa del solito nel ristorante del nostro Lodge, ma il tappeto musicale Jazz e’ ottimo, e fa sembrare bello anche tutto il resto. La signora che ci porta i piatti è molto gentile, e ci conferma che dovrebbe essere bel tempo per tutto il giorno. Speriamo, perché abbiamo davvero bisogno di una bella giornata di sole per le escursioni di oggi.

La prima tappa dista una mezz’ora di auto in direzione nord, ed è la Cattedrale di Salisbury, uno dei centri medievali più belli del Wiltshire. Ci arriviamo viaggiando in mezzo a un paesaggio incantevole, fatto di colline lavorate, boschi di querce, distese d’erba con poche mucche qua è là, siepi perfettamente disegnate e viali alberati ai lati delle case di mattoni rossi, che formano spesso veri tunnel di piante attraverso i quali passiamo in un silenzio perfetto. Il paesaggio inglese è uno dei motivi per cui volevo fare questo viaggio, e per ora non mi sta deludendo.
La cittadina di Salisbury ha origini addirittura romaniche, e si chiamava ancora Old Sarum al tempo in cui fu visitata da Guglielmo il Conquistatore dopo la sua vittoria ad Hastings. Nel centro storico ci sono begli edifici antichi e fiori ovunque, con molta gente che passeggia tranquilla ma anche molti abitanti locali affaccendati nelle cose di tutti i giorni.

La famosa Cattedrale, nostra prima meta di oggi, sorge in mezzo a un’area verde molto ampia, la più grande d’Inghilterra intorno a una chiesa, e spicca con la sua torre centrale e la guglia altissima che supera i 120 metri. L’architettura è gotica primitiva, le decorazioni sono ricchissime e minuziose, e la pietra chiara da a tutto l’insieme un aspetto di grande eleganza. L’edificio è mantenuto in condizioni perfette, non si direbbe che questa chiesa abbia quasi 800 anni.

L’interno (ingresso gratuito) è a 3 navate, lungo e stretto, con colonne imponenti e doppie arcate di bifore bicolori, particolarmente raffinate. Al centro della navata principale è stato inserito di recente un fonte battesimale moderno molto bello, che si integra perfettamente con lo stile antico del resto della chiesa. È una grande vasca romboidale in pietra bicolore, di una linearità quasi zen, che sale da terra e si allarga verso i bordi come un fiore; è piena d’acqua fino al bordo; ai quattro lati gli angoli estremi si ripiegano verso il basso creando quattro piccole cascate d’acqua benedetta che scende nelle grate di raccolta con un rumore continuo pacato e regolare, molto rilassante e gradevole. Finalmente un buon esempio di moderno al contempo simbolico e bello, che si mescola benissimo a una grandezza antica preesistente.

Il coro scolpito è uno dei più preziosi di tutta l’Inghilterra, in quercia scurissima cesellata come un pizzo. Tra le varie tombe antiche di arcivescovi e personalità politiche locali, da notare in questa chiesa è quella di William Longespée, III Conte di Salisbury, decorata dalla statua in pietra policroma di un uomo in completa tenuta da cavaliere. Si tratta della tomba del fratellastro del Re Giovanni Senzaterra, che fu il fautore della costruzione e il testimone della posa della prima pietra della Cattedrale stessa, e la prima personalità locale a essere sepolta nell’edificio sacro.

Nella chiesa troviamo anche l’orologio funzionante più antico del mondo, un meccanismo a ingranaggi in legno e ferro costruito nel 1386 che ancora oggi continua a scandire il tempo. Non ha un quadrante esterno, ritenuto non necessario quando lo costruirono, in quanto gli orologi erano generalmente collegati a una campana che batteva le ore per tutta la città. E questo incredibile orologio lo fa ancora con precisione, da oltre 600 anni.

In fondo alla chiesa, dietro all’altare maggiore, c’è la Cappella dei Prigionieri di Coscienza, con una grande vetrata moderna dipinta sui toni del blu e dell’arancio che simbolizza i diritti di tutti coloro che nel mondo sono prigionieri per via delle loro opinioni, o per aver difeso i diritti di altri. Su un angolo di questa cappella arde un grosso cero circondato da una simbolica spirale di filo spinato nero, che è mantenuto perennemente acceso da Amnesty International.

Su un lato della chiesa troviamo un chiostro molto grande, con la consueta atmosfera di magico silenzio che solo i chiostri sono capaci di regalare. La cosa particolare è che di solito i chiostri fanno parte di abbazie o monasteri, dove vivono e lavorano i monaci che poi, in questi ritagli di silenzio, si dedicano alla preghiera. pura Invece questo è l’unico chiostro inglese costruito senza nessun monastero vicino, solo per la bellezza e la pace che regala ai religiosi di questa parrocchia.

Nonostante tutte le meraviglie che contiene, l’elemento protagonista di questa cattedrale anglicana rimane la bellissima sala capitolare (no pictures allowed). A base ottagonale, con un pilastro centrale che va su verso uno straordinario soffitto di volte a ventaglio cesellate come un pizzo, ha le pareti decorate da un fregio scolpito nella pietra che gira tutto intorno, raccontando le scene più importanti dei libri dell’Antico Testamento. In questa sala elegantissima è custodito il gioiello più prezioso della Cattedrale, una delle 4 copie originali ancora esistenti della Magna Charta, quella più leggibile e meglio conservata, risalente al 1215. Un documento eccezionale, firmato dal Re Giovanni Senzaterra dietro esplicita richiesta dei Baroni per definire i rispettivi diritti e doveri. Di fatto è un documento ancora legato all’organizzazione di un mondo di tipo feudale, ma resta comunque il primo in cui si stabiliscono dei limiti ben precisi al potere assoluto di un Re. Il primo in cui si comincia a prendere coscienza dei diritti fondamentali delle persone e del territorio in cui vivono, della dignità, della necessità di arginare e controllare quelle libertà che andrebbero a ledere la libertà altrui, e soprattuto del fatto che tutti hanno diritti e doveri, compresi i Re.
Stare davanti a uno dei documenti più antichi e importanti della storia della democrazia in Europa è un’emozione molto forte. A questa Charta si sono poi ispirate tutte le maggiori carte costituzionali venute solo molti secoli dopo, da quella Americana, che abbiamo ammirato ai National Archives di Washington, a quella Francese, fino alla moderna Dichiarazione dei Diritti Universali dell’Uomo. Coloro che stilarono questi documenti fondamentali per il progresso della Storia dell’Uomo non hanno potuto prescindere da questa pergamena grande forse come un A3, scritta in latino abbreviato in una grafia minuta e fitta, con un inchiostro che quasi 800 anni dopo ancora parla chiaro. Nero su bianco. Un’esperienza bellissima.

Dopo la visita della Cattedrale, dove per la prima volta sentiamo parlare in italiano dalla maggior parte dei visitatori, prendiamo dei sandwich e un paio di dolcetti da Greggs e lasciamo Salisbury per avviarci verso la seconda tappa di oggi, che è una di quelle che si possono definire mitiche senza paura di esagerare: Stonehenge.

Abbiamo la prenotazione (obbligatoria) per la visita tra le 14,00 e le 14,30 e nonostante partiamo per tempo ci arriviamo appena in anticipo, a causa della lunghissima fila di auto in pellegrinaggio verso quello che è noto come il sito neolitico più famoso del mondo. Entriamo gratis e in fretta grazie alla tessera English Heritage, e scopriamo con piacere che anche il parcheggio è gratis per i soci. Dalla biglietteria, ricostruita di recente in un punto più lontano della precedente dal sito vero e proprio, per evitare di alterare troppo l’atmosfera del luogo, una navetta a vagoncini ci porta fino all’inizio del sentiero pedonale, da seguire per effettuare la visita con l’audio-guida inclusa nel biglietto.

Arriviamo lì, ed è come fare di colpo un enorme salto indietro nel tempo fino a circa 3000 anni prima di Cristo. Come dire 5000 anni fa. Nella preistoria dell’Umanità.
Il sito è ben organizzato, circondato da immensi spazi verdi e barriere protettive, ma fatto in modo che la fila ininterrotta di visitatori che vi accede senza sosta ogni giorno abbia una visione più che adeguata di questo luogo così misterioso. Nonostante la folla incessante, i gruppetti dei soliti italiani sguaiati in vacanza, le inutili chiacchiere multilingue che alcuni potevano magari riservare a un altro momento, e perfino un terribile odore che arriva a folate da un allevamento poco distante, il posto rimane uno dei più affascinanti che possa capitare di visitare.

Niente riesce a scalfire il potere speciale di questo cerchio magico di pietre di arenaria pesanti svariate tonnellate l’una, provenienti da cave situate a decine di chilometri di distanza da qui, perfino dal Galles, quelle blu al centro del cerchio, portate fino a qui e conficcate per oltre 2,5 metri nel terreno non si sa bene da chi e soprattuto perché.

Molte ipotesi sono state fatte negli anni, quasi tutte poi miseramente smentite dai successivi studi. Calendario astronomico, tempio sacro, cimitero reale, astronave (!), luogo di guarigioni miracolose, e chi più ne ha più ne metta. La più famosa è quella del tempio celtico innalzato dai Druidi per i loro riti magici, che comprendevano perfino sacrifici umani. È’ bastato analizzare meglio alcuni dettagli per verificare che i Druidi sono arrivati qui oltre 2000 anni dopo la nascita di questo sito, e quindi non hanno niente a che fare con la costruzione dei megaliti e delle loro architravi misteriose. Al massimo li hanno usati per un po’, ma niente di più. Quello che è certo è che, purtroppo, questa che vediamo oggi non era la disposizione originale delle pietre, è solo una ricostruzione recente e ancora non sappiamo veramente come era fatto e a quale scopo fu costruito. Ci sono varie ipotesi, ma nessuna certezza. Ognuno è libero di scegliere quella che gli piace di più. Il resto è ancora tutto da scoprire.

Di certo, la magia che questo antichissimo circolo di pietre ha esercitato sui suoi visitatori di ogni tempo è ancora intatta, e che uno venga qua con un quadernetto e una matita per disegnarlo, come facevano nel Settecento, o con l’ultimo modello di iPhone per farsi un selfie, di fatto nessuno rimane indifferente al potere delle pietre. Forse è per quella struttura circolare che così tanto attira e appare familiare, il cerchio magico del tempo e dello spazio che tutto comprende, forse per quelle pietre trasversali poggiate sui megaliti, le architravi, che sembrano aprire porte magiche su dimensioni misteriosissime e antichissime, o forse è solo la consapevolezza che gli uomini che tirarono su questo sito erano comunque nostri antenati, gli Ancestors come dicono qui, e quindi questo sito in un certo senso ci appartiene, è alla radice dei nostri ricordi e nel DNA delle nostre esperienze. E’ come una foto dell’età della pietra dei nostri bis bis bis avoli, e anche se oggi non capiamo più cosa rappresenta, sappiamo istintivamente che stiamo guardando dentro al nostro album di famiglia. Chissà. Venirci resta comunque una gran bella emozione.

Dopo un lungo giro e l’ascolto di tutti i numeri dell’audio guida torniamo lentamente verso la navetta, mentre il cielo si è fatto scuro e minaccia pioggia. Ma cadono solo poche gocce. Ero stata anche qui 25 anni fa, durante la mia vacanza studio a Londra, e ricordo ancora la mia emozione di fronte a questo mistero che si perde nella notte dei tempi. Luca, che lo vedeva per la prima volta, è notevolmente impressionato dal sito. Per qualche motivo se lo aspettava molto più grande, ed è sorpreso dal diametro relativamente ridotto del cerchio magico. Succede spesso questa cosa con i luoghi tanto famosi da essere ormai mitici, l’immaginazione li fa diventare enormi nella nostra mente come se la loro dimensione reale fosse direttamente proporzionale a quella della loro fama, e finché non li vediamo con i nostri occhi, eretti di fronte a noi in tutta la loro esatta realtà fisica, non possiamo dire davvero di conoscerli.
Ecco perché viaggiamo. Per andare a vedere.

Vicino al centro visitatori facciamo un giro nel piccolo villaggio neolitico ricostruito attraverso i reperti ritrovati nella zona, in cui si può vedere come le pietre venivano probabilmente trasportate e come erano fatte le capanne e gli attrezzi degli uomini che lavorarono alla creazione del cerchio di pietre e di tutto quello ce c’è intorno, in parte non ancora dissepolto dal terreno. Quindi raggiungiamo la caffetteria e ci sediamo a un tavolo all’aperto a mangiare i nostri sandwich e i biscotti, stanchi e quasi storditi, con la mente ancora impegnata a elaborare le emozioni intense che ci sono state regalate dall’incontro con il mitico cerchio neolitico di Stonehenge. Prima di ripartire in direzione della costa facciamo un giro allo shop, molto grande e affollato, pieno di qualunque tipo di chincaglieria sia possibile immaginare fatta a forma di megalite, e ci divertiamo moltissimo, un’esperienza sicuramente da non perdere che fa parte integrante di questa visita.

La prossima fermata è Cerne Abbas, dove, su una collina della campagna circostante, è visibile l’immagine incisa sul terreno di un gigante risalente probabilmente al XVII secolo, e che un tempo si credeva potesse essere anche molto più antica. Troviamo subito il view point che si affaccia sulla vista del Gigante, ben indicato lungo la A532, e ci fermiamo qualche minuto a osservare quest’altro mistero.

Il Gigante si vede distintamente dal punto in cui ci troviamo, dato che è alto oltre 55 metri e largo quasi 50. Il disegno, più o meno stilizzato, raffigura un uomo chiaramente nudo, con una specie di clava in una mano (lunga ben 37 metri) e le braccia aperte, ma non ha un’aria aggressiva, potrebbe sembrare una caricatura, oppure un antico simbolo propiziatorio di fertilità.

Quelle che da lontano sembrano linee bianche disegnate sull’erba sono in realtà piccole trincee larghe 30 centimetri e profonde altrettanto, dalle quali la terra è stata scavata via fino ad arrivare al gesso sottostante. Il gigante è sotto la tutela del National Trust e si può andare a visitare da vicino, anche se è solo da lontano che si riesce ad avere l’immagine più efficace di questo insolito monumento.

E’ una scelta strana, in effetti. Una figura così grande sembra disegnata apposta per essere vista da un occhio lontano, o sistemato molto in alto. Chi voleva impressionare, il suo autore? Quale cosa importante voleva comunicare, tanto da gridarla a voce così alta? Era una preghiera o uno sberleffo divertito? Mistero. Nonostante secondo alcune teorie il Gigante potrebbe essere addirittura una caricatura di Oliver Cromwell, che nel Seicento invadeva e conquistava con la forza ogni angolo d’Inghilterra come un Ercole redivivo (pare che sul braccio sinistro del gigante ci sia traccia della presenza di una linea ormai cancellata che poteva raffigurare la pelle di leone), poco più a nord su questa stessa collina sono state ritrovate tracce di insediamenti umani risalenti all’età del ferro, e ad oggi non si sa se il Gigante possa essere coevo di queste popolazioni. Chissà. Comunque, qualunque sia la sua origine misteriosa, secondo noi è molto simpatico, e siamo stati contenti di incontrarlo.

Ripartiamo proseguendo sulla stessa A532 diretti verso Portland alla ricerca della spiaggia di Chesil Beach, per un’altra delle soste letterarie di questo giro. La Miss della Volvo ci guida con precisione fino al parcheggio a pagamento dove ci fermiamo, ed è con grande emozione e curiosità che scendo dall’auto per l’ultima visita di questa lunga giornata.

Il sole è basso, il vento è fortissimo, e la spiaggia è magnifica. È più un’oasi naturalistica in effetti, con flora e fauna protette sviluppatesi al riparo di una distesa infinita di ciottoli che prosegue a perdita d’occhio.

Più che una distesa è quasi una collina di pietre, che dobbiamo scalare con passi faticosi e scricchiolanti per arrivare fino in cima e poter ammirare i chilometri di costa sassosa che si stendono ai lati del punto dove ci troviamo, deserti e bellissimi. Il mare davanti a noi è grigio e schiumoso, e ruggisce in modo fragoroso, perché è ancora la Manica questa, che poi è Oceano, e come dice Luca, se guardi bene, laggiù si vede la Francia. Non è esattamente un mare dove si va a fare il bagno, ecco, così come questa striscia chilometrica di grossi ciottoli colorati non è una spiaggia nel senso più comune del termine. Ma è un posto incredibile pieno di gabbiani che gridano, spruzzi di onde che si rovesciano a riva e vento salmastro che soffia con una forza tale da farci quasi cadere per terra, tutto immerso in una luce dorata fantastica.

Su questa anomala striscia di terra al confine col mare comincia e finisce la storia d’amore di Edward e Florence, sposi incapaci di amarsi fino in fondo, giovani innamorati con i sentimenti irrigiditi dalle paure tipiche di un tempo – grazie a Dio lontano – capace di sbriciolare e disperdere il loro amore in infiniti piccoli pezzi di pietra, simili a quelli sui quali stiamo camminando.

Invece che nel quadro, stavolta siamo saltati nel romanzo, ma l’emozione è la stessa.
Raccolgo un paio di sassi prima di ripartire e me li metto in tasca, so già a chi li darò.

Da Chesil Beach raggiungiamo il nostro B&B di stasera, dopo qualche difficoltà iniziale dovuta solo alla nostra disattenzione e non certo alle precise indicazioni della Miss. Sono quasi le 8 e la signora cominciava a temere che non saremmo più arrivati! Ci accoglie con grandissima cordialità e ci dice di non preoccuparci per l’orario della colazione, se ci vogliamo riposare un po’ di più domattina per lei andrà benissimo. Non abbiamo voglia di uscire di nuovo, così mangiamo biscotti e dolci che abbiamo con noi preparandoci un bel caffè con il bollitore, che qui troviamo in tutte le stanze – una civilissima abitudine che dovrebbe essere esportata in tutto il mondo. Domani ci aspetta un altro lungo giro ma ora è tempo di riposo, in questo piccolo paese dove l’aria profuma di mare e sale.

Lunedì 11 agosto 2014: Portsmouth – Jane Austen’s House – Winchester Cathedral and Great Hall

Notte di vento teso e nuvole gonfie d’acqua, a Brighton. Quando lasciamo l’hotel, pare che il cielo voglia venire giù tutto insieme. Viaggiamo lungo la costa fino a Portsmouth, e per tutta l’ora abbondante del nostro spostamento siamo accompagnati da un diluvio scrosciante. Nelle vicinanze del porto della cittadina però la pioggia si calma e il cielo si apre, e quando parcheggiamo spunta addirittura un po’ di sole. La proverbiale variabilità del clima inglese da il meglio di sé qua nel sud, dimostrandoci che non è solo una leggenda per turisti.

Ci avviciniamo alla zona storica dei Docks, ma so già che non entreremo, vogliamo solo dare un’occhiata visto che siamo di passaggio in zona. Qui il porto antico è molto famoso e attira frotte di turisti ogni anno, specialmente famiglie con bambini, perché ospita diverse navi storiche vanto e orgoglio della Marina di Sua Maestà, tanto che ne hanno fatto una specie di parco a tema. Si paga un biglietto d’ingresso unico e, una volta dentro, si possono visitare tutti i vascelli antichi conservati qui, salire a bordo, assistere alle ricostruzioni delle battaglie navali storiche e sperimentare con mano la grandezza e la potenza della marina inglese. Il vero gioiello conservato qui è il Victory, il veliero da guerra comandato dall’Ammiraglio Nelson durante la battaglia di Trafalgar del 1805, alla quale fu poi intitolata una delle piazze più famose di Londra. Non si tratta di una copia ricostruita, questo è proprio l’originale, la vera nave che andò in battaglia contro le armate di Napoleone alleate agli spagnoli, e che, in inferiorità numerica di uomini e armi, riuscì a riportare una vittoria clamorosa e irripetibile. Sul ponte di questo stesso vascello l’Ammiraglio Nelson trovò la morte colpito da una pallottola nemica, ma almeno fece in tempo a sapere che le sue navi avevano vinto la battaglia.

Il biglietto d’ingresso costa molto, circa 20£ a testa, e la visita richiederebbe tutta una giornata, perché nel parco navale sono ormeggiati anche il Warrior, la Mary Rose, un sottomarino da guerra e molte altre imbarcazioni storiche, ma noi non abbiamo tempo ne’ un particolare interesse per questa attrazione. Facciamo qualche foto al Warrior, che si vede anche da fuori del porto storico, con la sua chiglia corazzata nera e lucida, gli alberi imponenti sui quali riposano le vele ripiegate, la prua decorata da un guerriero armato di spada e scudo, le file dei cannoni allineati lungo la fiancata. Una nave possente e ardita, in perfette condizioni, immobile al suo ormeggio ma che sembra pronta a partire da un momento all’altro per affrontare qualunque battaglia.

Prendiamo dei sandwich da portare via in un piccolo negozio vicino al molo, dove la fila dei visitatori con bambini al seguito non accenna a diminuire, e torniamo alla macchina. Ci spostiamo a pochi isolati di distanza, in un quartiere residenziale elegante e tranquillo, tutto fatto di case in mattoni e vialetti alberati, giardinetti fioriti e facciate perfette come dipinti, e ci fermiamo a fare qualche foto alla casa natale di Charles Dickens.

Di fatto lui abitò qui per poco tempo, era ancora un bambino quando i suoi trasferirono l’intera famiglia a Londra, ma è pur sempre il luogo d’origine del mitico autore del Circolo Pickwick, non si può tirare dritto senza fermarsi a rendergli omaggio. Sapevo che purtroppo il lunedì la casa museo è chiusa e non potremo entrare, ma questa sosta mi fa sentire già soddisfatta.

Da Portsmouth proseguiamo fino a Chawton, nell’East Hampshire, alla ricerca di una casa che invece mi interessa moltissimo: Jane Austen’s House. La troviamo senza difficoltà grazie alle indicazioni della Miss del navigatore, e restiamo incantati dal bel cottage di mattoni circondato da un giardino fiorito. Purtroppo non fa parte di nessuna delle associazioni di cui abbiamo le tessere, quindi paghiamo il biglietto richiesto di 7,50£ a testa ed entriamo, curiosi e pieni di aspettative. All’inizio del giro c’è un centro visitatori con pannelli informativi e un grande schermo sul quale viene proiettato un film di una decina di minuti che racconta la vita della grande autrice inglese e la sua storia in questa dimora. Quindi si procede alla visita della casa vera e propria, che è rimasta molto simile a com’era quando Jane viveva qui con sua madre, sua sorella minore Cassandra e l’amica di famiglia Martha Lloyd. Questo cottage era stato ereditato dal fratello minore di Jane, Edward, che lo mise a disposizione della madre e delle sorelle quando caddero in difficoltà economiche dopo la morte improvvisa del padre, il reverendo George Austen.

E non avrebbe potuto sistemarle meglio. Il posto è davvero incantevole, tranquillo e pieno di verde e aiuole fiorite, decorate da uccellini di carta tipici della fauna locale. La casa è grande, su due piani, dotata di tutti i comfort e molto accogliente. Nel salotto, che è la stanza da dove ha inizio la visita, ci sono un pianoforte, una libreria, una chaise-longue e un manichino con indosso un abito bianco in tessuto a pois decorato da un nastro, un abito molto bello che Jane avrebbe potuto benissimo indossare durante le sue passeggiate per le strade di questo paesino immerso nella campagna inglese. Sulla chaise-longue vicino al caminetto, come su tutte le sedie e le poltrone della casa, sono sistemati mazzetti di lavanda legati da nastrini viola, segno che non ci si può sedere, una soluzione che mi pare molto austeniana. Il pianoforte è aperto e ci sono diversi spartiti disponibili, i preferiti di Jane, e la signora che ci accoglie nella stanza mi invita ad accomodarmi tranquillamente sullo sgabello e suonare quello che voglio. Questa è davvero una di quelle volte in cui mi dispiace molto di non saper suonare il piano.

La camera da letto è abbastanza piccola, ma con un bel caminetto e un letto a baldacchino con le tende color crema e le ruches tutto intorno, a creare un’atmosfera ottocentesca che più Jane Austen non si può. Qui sono esposti oggetti appartenuti a Jane e alla sorella Cassandra, alcuni lavori di ricamo fatti dalle due sorelle, il ritratto della zia fatto da Jane ad acquarello e una famosa silhouette che pare sia l’immagine del vero profilo della famosa autrice preromantica. Nella stanza degli ammiragli, che erano i fratelli marinai di Jane, c’è addirittura la trapunta patchwork cucita a mano per loro da Jane e sua madre, davvero un bellissimo reperto.

La sala da pranzo è semplice ed elegante, e dappertutto ci sono ritratti, libri, stampe che raffigurano scene tratte dai romanzi di Jane e piccoli oggetti che appartenevano alla famiglia. Ma la cosa che mi colpisce di più è nella sala della colazione, dove, proprio tra il tavolo da pranzo e una grande finestra luminosa, è sistemato un tavolino con vicino una semplice sedia in legno. Il tavolino è di quelli piccoli, tondeggiante, con una sola gamba centrale a tre piedi e un diametro di neanche 50 centimetri, col piano scuro un po’ consumato sul quale è appoggiato un calamaio d’inchiostro con una piuma da scrittore. Sembra incredibile, eppure questo è proprio il tavolo originale al quale Jane sedeva per scrivere i suoi romanzi. C’è spazio appena per una paginetta, già un secondo foglio non si saprebbe bene dove metterlo, e invece lei ha composto e rielaborato tutti i suoi libri più famosi china su questa postazione in miniatura, che sembra uscita da una casa di bambole.

Giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, Jane ha creato le sue eroine romantiche su questi pochi centimetri di legno scuro, scrivendo con una piuma e inchiostro nero su piccole pagine di carta avorio, con una grafia minuta e precisa, regolare e dritta, alla luce che entrava dalla finestra della sala da colazione, mentre la vita degli abitanti del piccolo paese scorreva sotto ai suoi occhi mescolandosi all’andirivieni indaffarato delle altre donne della casa alle prese con le normali attività quotidiane. Una cosa che, solo a pensarla, commuove.

Ieri nel frutteto di Virginia Woolf, che era una grande ammiratrice di Jane Austen, abbiamo visto la sua stanza tutta per sé, appartata e quasi segreta, immersa nella tranquillità della natura, come un rifugio ritagliato via dal mondo reale nel quale la grande scrittrice poteva concentrare e liberare tutta la sua creatività. La sua scrivania era grande e piena di oggetti, fogli, penne, cartelline, libri, occhiali, quaderni di appunti, e soprattutto, era circondata dal silenzio. Qui invece, sembra tutto il contrario. Un ambiente vivace e rumoroso, movimenti e suoni intorno, e un minuscolo spazio sul quale chinarsi a comporre storie. Evidentemente, ogni artista ha bisogno del suo modo speciale di lavorare.

Di certo Jane aveva un talento naturale grandissimo, visto che, in quanto figlia femmina, suo padre non si preoccupò di garantirle una formazione culturale che fosse al livello delle sue potenzialità, preferendo educarla personalmente a casa e mettendo a disposizione della sua enorme curiosità e sensibilità la sua grande biblioteca privata. Ma tanto bastò, visto che le sue storie d’amore analizzano con ironia e acume l’universo femminile del tempo come mai era stato fatto prima, e che le sue figure di donne dai caratteri sfaccettati hanno ancora oggi un valore letterario che si può considerare universale, e sono ancora capaci di ispirare registi, sceneggiatori e Janeites di ogni luogo.

Prima di uscire passiamo dalla cucina esterna dove, davanti a un grande focolare, è stato allestito un tavolo con tutto l’occorrente per farsi i propri sacchettini di lavanda lasciando una piccola offerta. Su una panca vicino al muro ci sono abiti e cappellini di foggia ottocentesca, a disposizione delle visitatrici che vogliono calarsi nell’atmosfera fino in fondo indossando una mise nello stile dell’epoca di Jane. Ovvio che non ci penso su un attimo. Mi infilo un cappello di paglia, lego il bel nastro viola sotto alla gola e vado a farmi il mio sacchetto di lavanda personale, in uno stile perfettamente austeniano.

Dopo una sosta nel piccolo shop, dove è particolarmente difficile resistere alla tentazione di acquistare ogni genere di souvenir da Janeites, torniamo al parcheggio dove abbiamo lasciato l’auto, davanti al quale c’è un parco verdissimo – ma dove non c’è, un parco, qui?
Stanchi e affamati, ci sediamo su una panchina a riposare e a mangiare i nostri ottimi sandwich con insalata di pollo, all’ombra di una quercia dai rami enormi. Chissà se era già qui, quando Jane passeggiava da queste parti.

Quindi riprendiamo la strada che taglia per la campagna, con le sue rotonde a sinistra e i magnifici tunnel alberati, e proseguiamo in direzione Winchester, dove arriviamo in poco più di mezz’ora. Il paese è piccolo e molto caratteristico, con un bel corso pedonale sul quale si affacciano antichi edifici dalle facciate decorate, ma vero il gioiello qui è la Cattedrale in stile romanico-gotico, che è una delle più antiche e importanti d’Inghilterra. Prima dell’arrivo di Guglielmo il Conquistatore, e della fatidica battaglia di Hastings del 1066 che cambiò il corso della Storia, Winchester era la capitale del Regno dei Sassoni e la città dove risiedevano e si incoronavano i Re, quella che per un periodo fu considerata la vera Camelot, in cui si ipotizzava fosse celata perfino la tomba del mitico Re Artù.

La Cattedrale di Winchester è una delle più grandi del paese, e la sua elegante imponenza impressiona già dall’esterno, con le sue guglie candide che guarniscono un bell’edificio posato su un prato verdissimo. Per entrare si paga un biglietto di 7,50£ a testa che è valido per 1 anno, e che da diritto d’ingresso a uno dei luoghi spirituali più suggestivi di tutta l’Inghilterra. L’interno è veramente impressionante, sia per la bellezza dell’architettura delle navate e delle volte che per le dimensioni stupefacenti di questa chiesa, lunga oltre 170 metri.

Oltre alle tombe scolpite di cavalieri e uomini politici, gli altari laterali, le nicchie e le enormi vetrate istoriate che si ammirano durante la visita, rimaniamo colpiti dal coro ligneo sistemato dietro l’altare maggiore, particolarmente elaborato e raffinato, che è un vero gioiello artistico. Qui troviamo il gruppo dei cantori della Cattedrale che sta facendo le prove dei canti dei vespri, e restiamo per un po’ ad ascoltare le loro voci angeliche che salgono verso quelle meravigliose volte riempiendo l’aria di dolcezza.

Nella navata di sinistra, quasi in fondo vicino all’ingresso, visitiamo la tomba di Jane Austen, che fu sepolta qui dopo la sua morte prematura causata da un malattia sconosciuta. Aveva solo 41 anni e aveva già scritto i suoi romanzi più famosi, ma due non erano ancora stati pubblicati e un ultimo rimase incompiuto. Naturalmente, in quanto autrice donna, Jane doveva pubblicare senza usare il suo vero nome anche dopo che ebbe riscosso un certo successo di pubblico, e fu solo dopo la sua morte che il nipote curò le nuove edizioni dei suoi romanzi rivelando il vero nome dell’autrice.

La tomba è semplice e molto bella, risistemata e arricchita da una targa in ottone che celebra la grandezza della donna oltre che dell’artista, e che fu aggiunta dai suoi discendenti dopo il grande successo letterario postumo di Jane. E’ abbellita da una composizione di fiori sui toni del rosa e del lilla, ranuncoli, rose, margherite viola e fresie che le sarebbero piaciuti molto, e che ne fanno un angolo davvero poetico all’interno di questa cattedrale già impressionante. E se ai suoi contemporanei non fu dato conoscere il vero nome dell’autrice di alcuni dei più famosi e amati romanzi dell’epoca, ancora oggi nessuno ha dimenticato le romantiche eroine create dalla penna leggera e acuta di Jane Austen, e la sua tomba è meta quotidiana di un pellegrinaggio ininterrotto di fan in arrivo da ogni parte del mondo. Oggi è arrivato finalmente anche il nostro turno.

Dalla Cattedrale torniamo verso il centro storico, che è davvero caratteristico, e visitiamo la Great Hall (ingresso gratuito), un salone enorme del castello reale di Winchester in cui è conservata quella che viene considerata la Tavola Rotonda di Re Artù, creata nientemeno che da Mago Merlino per il Re che sarebbe stato l’unico in grado di estrarre la spada dalla roccia.

È’ appesa alla parete di fondo, fatta in legno di quercia dipinto a spicchi color avorio e verde, ognuno dedicato a uno dei cavalieri del mitico Re. I nomi dei cavalieri sono scritti tutti intorno al bordo della Tavola, con eleganti caratteri gotici: Lancillotto, Parsifal, Tristano, Ivano, Galvano, Mordred, tutti riuniti in un cerchio magico di 25 uomini che, nella leggenda, furono i depositari del bene e della giustizia e tra le cui avventure c’è perfino la ricerca e la custodia del Santo Graal. L’unica figura presente sulla Tavola è proprio quella di re Artù seduto sul suo trono, col manto di ermellino, la corona, il globo e la sua spada Excalibur in mano, democraticamente circondato dai suoi uomini più leali e coraggiosi. La Tavola ha un diametro totale di oltre 5 metri, è in condizioni perfette, ed è davvero bellissima.

Attendevo questo momento da molto tempo, da quando avevo inserito questa tappa nel nostro giro inglese. Avevo visitato questo stesso salone ai tempi della scuola, esattamente 25 anni fa, ed ero curiosa di sapere che emozioni mi avrebbe regalato tornare qui dopo così tanto tempo, con molta più vita alle spalle e occhi diversi per vedere il mondo. E il luogo non mi ha deluso, anzi. La Tavola è ancora magica e affascinante come me la ricordavo, e anche questa volta, come 25 anni fa, ignoro le didascalie esplicative sulla probabile vera storia di questo mirabile oggetto e mi limito a godermi di nuovo la sua visione. Voglio ancora credere di essere di fronte alla vera Tavola di Re Artù e dei suoi perfetti cavalieri, sistemata al sicuro nel salone del castello della città di Camelot in attesa del ritorno del suo legittimo proprietario. Crediamo a cose ben più strane di questa, a volte.

All’uscita dalla Great Hall le nuvole scure sono tornate, ma non piove. Cerchiamo un posto per cenare, in perfetto orario inglese, prima di andare a riposarci in hotel. Giriamo un po’ in centro senza fortuna, il solo locale che ci piace comincia a servire la cena solo più tardi, e quando stiamo per lasciar perdere scoviamo un pub antico con una bella atmosfera, in una vietta nascosta, che offre piatti interessanti a prezzi abbordabili. Visto che è un pub, ormai abbiamo imparato come si fa. Stasera prendiamo un tortino di manzo alla birra con purè di patate e piselli, accompagnato da una salsa molto buona. Luca prova la Foster, ma io cedo alla nostalgia e mi prendo una Guinness.

All’uscita dal pub comincia a piovere forte, ma per fortuna questa volta abbiamo con noi un ombrello. Arriviamo alla macchina giusto in tempo e raggiungiamo il Lodge prenotato per stasera con facilità, rifugiandoci subito in camera a rilassarci dopo una lunga giornata di scoperte.

10 agosto 2014: Battle Abbey and Battlefield – Bateman’s House – Monk’s House – Brighton

Terza notte inglese sotto un piumone azzurro con stampe di uccellini, mentre diluvia incessantemente sul bosco. La nostra terrazza non è utilizzabile stamattina, ma la vista sul giardino resta bella anche con la pioggia. Facciamo colazione in una veranda a vetri che somiglia a una piccola serra, a un tavolo tondo apparecchiato a meraviglia: tovaglia candida, porcellane Evesham dipinte a fiori e frutta, posate con impugnature dai decori in rilevo, bicchieri a calice, bricchi panciuti di tè e caffè, ciottoline di burro e marmellata fresca fatte a forma di fiore. Come tocco finale, portatovaglioli di porcellana. Potrei fare colazione qui per il resto della mia vita.

Il cibo è ottimo e abbondante, e l’atmosfera molto piacevole. Luca prende una ricca Full English, mentre io provo una soffice omelette di prosciutto e formaggio, deliziosa. Il marito della signora ci racconta come riesce a gestire tutto da solo, e naturalmente ci informa dettagliatamente sul tempo previsto per la giornata. Quando gli dico che a noi piacciono molto le rose inglesi, che qui non vediamo, la signora ci spiega con aria rassegnata che anche lei ha provato a piantarle, ma subito arrivano i conigli dal bosco e si mangiano tutto. Pare che siano molto golosi di rose. I piccoli inconvenienti di vivere in un posto da fiaba… Raccontiamo un po’ del nostro programma e del giro che abbiamo intenzione di fare, e alla fine dobbiamo raccogliere le nostre cose e partire. Ma ci ricorderemo sempre di questa casa in mezzo al bosco.
In pochissimi minuti raggiungiamo il centro del villaggio di Battle, che è nato proprio intorno alla sua attrazione principale: l’Abbazia e il luogo della Battaglia di Hastings, a poche miglia da qui, visitati da moltissimi turisti ogni anno e curati dell’English Heritage

Purtroppo il tempo è brutto, il cielo si è fatto cupo e poco dopo il nostro arrivo si scatena una vera tempesta. In una sala di proiezione predisposta nel centro visitatori guardiamo un bel filmato che, in un quarto d’ora di immagini di grande effetto, spiega come andarono i fatti quel fatidico 14 ottobre 1066, quando l’esercito normanno guidato da Guglielmo il Conquistatore sconfisse l’esercito di Re Harold mettendo fine all’era Anglo-Sassone e dando inizio alla storia dell’Inghilterra come la conosciamo oggi. Oltre 7000 soldati morirono qui tra l’alba e il tramonto di quel terribile giorno, e tra loro un Re, Harold, e molti capi di nobili famiglie. La storia inglese cambio’ il suo corso in questo luogo, e anche quella dell’Europa intera.

Guglielmo si dimostrò un leader coraggioso e astuto e condusse il suo esercito alla vittoria con una tattica militare brillante, conquistando per se’ il regno che tanto desiderava. Ma fu ben consapevole del prezzo che tutti dovettero pagare perché questo avvenisse, e pochi anni dopo, su esortazione di Papa Alessandro II, fece costruire su questo campo di battaglia un’abbazia benedettina, in memoria di tutti coloro che persero la vita quel giorno.

Facciamo il giro con l’aiuto dell’audio-guida ricevuta all’ingresso ma piove con una certa intensità, così ci adeguiamo agli usi locali sfoggiando quello che sfoggia ogni vero inglese di fronte ad agenti atmosferici avversi: una mantellina di gomma col cappuccio e una dignitosa impassibilità. Luca ha quella azzurra con le orche del Loro Parque di Tenerife, io quella nera del Museo delle navi Vichinghe di Oslo. Per l’impassibilità, facciamo il possibile. E quando proprio il vento si alza e la pioggia si fa troppo intensa, ci rifugiamo dentro a un bellissimo dormitorio di monaci che faceva parte del complesso benedettino, ad ascoltare la ricostruzione storica dei fatti narrati dalla voce dell’audio guida con tanto di sottofondo di scontri di spade e scudi, grida di attacco e frastuono di combattimenti. Molto suggestivo.

In giro troviamo anche volontari in abiti medievali che organizzano dimostrazioni di duelli con scudi e spade di legno e postazioni di tiro con l’arco che coinvolgono i più piccoli, e i bambini che partecipano sono entusiasti di queste attività che rendono la storia antica una cosa viva ai loro occhi.

Il Campo di Battaglia è grande e sommerso di erba incolta, circondato da un lungo sentiero di visita che oggi, per via del maltempo, non prende quasi nessuno. Ma di fatto, tutta la zona sulla quale ci troviamo fu il vero campo di battaglia quel giorno, e sul terreno dove camminiamo si svolsero proprio gli scontri più violenti. La terra sotto ai nostri piedi, oggi inzuppata di pioggia, fu intrisa del sangue di migliaia di soldati inglesi e normanni, e nel punto esatto dove poi Guglielmo fece piazzare l’altare maggiore della chiesa dell’Abbazia, fu versato sangue di Re. Oggi c’è una lapide a segnare il luogo esatto in cui Harold cadde infilzato dalle spade normanne, ormai quasi 1000 anni fa.

La chiesa dell’Abbazia non c’è più, restano solo le tracce delle sue fondamenta risalenti al 1070 insieme a quelle di una cripta di epoca successiva, ma il complesso dell’Abbazia con i vari edifici dalla bella architettura rende esattamente l’idea di come doveva essere questo posto fino al XVI secolo, quando andò incontro con gli altri edifici cristiani alle devastazioni ordinate da Enrico VIII.

<\p>

È una visita che mi impressiona parecchio, molto più di quanto mi aspettassi, e alla fine anche la pioggia e il cielo cupo contribuiscono a creare l’atmosfera perfetta per questa esperienza. Ero già rimasta incantata a Bayeux, anni fa, ammirando il meraviglioso arazzo nel quale i fatti accaduti in quei giorni furono narrati in straordinarie scene ricamate a colori vividi, così dettagliate e realistiche da superare qualunque cronaca verbale. Ma venire qui di persona è davvero un’altra cosa.

Finalmente posso vedere con i miei occhi questo luogo che sta proprio all’origine della storia dell’Inghilterra, e dare corpo e realtà fisica a quella che durante gli anni della scuola è solo una nozione da ricordare a memoria: 1066, Battaglia di Hastings.

Il cielo è scuro ma non piove quasi più quando torniamo alla macchina, pronti a dirigerci verso la seconda tappa di oggi, Bateman’s House.
La nostra meta è a una decina di miglia da Battle, in un piccolo centro chiamato Burwash, dove si trova la casa nella quale lo scrittore Rudyard Kipling ha vissuto per oltre 30 anni fino alla sua morte, dopo i lunghissimi viaggi che lo hanno portato in giro per il mondo. È un bene del National Trust, quindi entriamo con la nostra tessera FAI.

<\p>

La casa è semplicemente magnifica. Una villa in pietra del 1600 immersa in un giardino favoloso che è un’oasi di pace al riparo dal mondo, con boschetto, frutteto, laghetto delle ninfee, roseto e sentieri lastricati perfettamente disegnati, un incanto per eleganza e raffinatezza.

Gli interni sono altrettanto preziosi, con splendidi mobili originali scolpiti e intarsiati, pannellature di quercia e cuoio dipinto alle pareti, enormi finestre all’inglese che lasciano entrare la luce a fiotti e moltissimi oggetti insoliti che Kipling riporto’ dai suoi viaggi in oriente e in America. Lo studio è anche qui la stanza più bella della casa, ampia e luminosa, ricercata ma in fondo semplice e molto accogliente, un luogo dove lavorare doveva essere un vero piacere.

La cosa più interessante sono le moltissime testimonianze originali dello scrittore, dagli oggetti usati quotidianamente agli abiti che indossava, dai bauli in cuoio dei suoi viaggi alla corrispondenza privata, dalle sue collezioni di memorabilie indiane ai bassorilievi raffiguranti i personaggi più famosi dei suoi libri. E poi tutte le prime edizioni dei romanzi, i quaderni di appunti, alcuni manoscritti di poesia e molte fotografie della sua vita pubblica e privata.

Sebbene per temi trattati e stile narrativo sia un autore più vicino all’800 che non al ‘900, secolo nel quale ha vissuto per metà della sua vita, Kipling è pur sempre colui che ci ha regalato il personaggio di Mowgli, il cucciolo d’uomo, insieme all’orso Baloo, alla pantera Bagheera, alla tigre Shere Khan e alle loro incredibili avventure nel mondo lontano e misterioso dell’India più esotica: impensabile non venire a rendergli omaggio. A chi non è mai capitato di sentirsi come Mowgli, non del tutto animale tra gli animali e non del tutto uomo tra gli uomini, mai davvero nel posto giusto?
“Il Libro della Giungla” è il romanzo che gli è valso il Nobel per la Letteratura nel 1907, e che ancora oggi adulti e bambini di tutto il mondo leggono con la stessa emozione di quando fu pubblicato per la prima volta nel 1893.

Dopo la visita all’elegante dimora di Kipling ci spostiamo alla ricerca di un’altra casa che mi interessa moltissimo, quella di Virginia Woolf, della quale non c’è traccia sulla mia fidata LP ma che ho scovato sul sito del NT nell’elenco dei beni da loro gestiti, con una generica indicazione del paese di Lewes come sede. Purtroppo l’efficiente Miss del navigatore integrato dell’auto, che ci da le indicazioni nel suo perfetto upper class English, non ha questa destinazione nel suo archivio, ma speriamo che una volta sul posto verremo aiutati dai famosi cartelli marroni che indicano i luoghi di interesse turistico.
Invece una volta arrivati a Lewes, che è una cittadina molto carina, non troviamo traccia di cartelli di nessun colore, e l’ufficio informazioni dove proviamo a passare è già chiuso perché è domenica. Non voglio farmi prendere dallo sconforto, così andiamo alla stazione e proviamo a chiedere lì, ma pare che nessuno sappia niente di Monk’s House. Le cose si complicano, ma dobbiamo trovare una soluzione in qualche modo. Non posso essere così vicina a questo posto che sogno di vedere da anni e andarmene senza visitarlo…
Passando in auto per il centro, all’arrivo, ho notato sui cartelli indicatori che in paese c’è anche la casa-museo della Principessa di Clèves, quindi mi viene un’idea un po’ azzardata: se anche quella fosse gestita dal National Trust, magari lì mi saprebbero dire come raggiungere la casa di Virginia, tutelata da questa stessa associazione. Potrebbe funzionare. E comunque non è che abbiamo molta scelta, quindi andiamo. Non ci possiamo arrendere proprio adesso.

All’ingresso della piccola casa con la facciata a graticcio non c’è traccia della foglia di quercia simbolo del National Trust, ma entro lo stesso a chiedere. Alla cassa c’è un signore piuttosto robusto e gentilissimo, che appena nomino Monk’s House fa subito cenno di si con la testa, riaccendendo le mie speranze! La casa è vicina ma non si trova a Lewes, bensì a Rodmell, una frazione a pochi chilometri di distanza. Basta prendere la via che mi segna sulla cartina della zona che abbiamo preso alla stazione, e poi seguire i soliti cartelli marroni. Ce l’abbiamo fatta, e abbiamo ancora tutto il tempo per fare la nostra sospirata visita!
Lo ringrazio mille volte prima di uscire, quindi lasciamo Lewes diretti a Rodmell, e pochi minuti dopo siamo davanti a Monk’s House. Alla cassa riconoscono subito le nostre tessere FAI gemellate col NT, e otteniamo i nostri biglietti d’ingresso gratuiti senza problemi.
Finalmente, alziamo il paletto del piccolo cancello di legno bianco ed entriamo nel giardino di casa di Virginia Woolf. Un’emozione che non dimenticherò molto presto.

La casa è immersa nel verde, tanto che da fuori quasi non si vede. È un semplice cottage in legno bianco, con una grande veranda aggiunta chiusa da vetri spioventi e circondata da moltissime piante. Gli infissi sono in legno verde, e quando entriamo scopriamo che anche le pareti del salotto sono dipinte di verde chiaro, molto raffinate. I mobili sono pochi ma bellissimi, pezzi decorati in stile liberty ricevuti in regalo da artisti amici di Virginia e Leonard o acquistati durante i loro viaggi all’estero, però l’atmosfera non è affatto pretenziosa, anzi è accogliente, tipica di una casa di campagna. Ci sono quadri, soprammobili e libri ovunque, vasi di fiori e giochi di carte sparsi in giro, c’è la posta ancora chiusa sullo scrittoio di Leonard e piatti e bicchieri a portata di mano nella piccola cucina, dove sulle sedie sono posati cuscini ricamati da Vanessa Bell, la sorella di Virginia. Tutto è sistemato con assoluta naturalezza, le stanze hanno grande personalità e ci accolgono con una specie di rustica raffinatezza. I ritratti di Virginia appesi alle pareti, realizzati dai suoi amici pittori del Bloomsbury Group, rendono l’ambiente unico. Viene voglia di mettersi comodi sul divano davanti al camino, con una tazza di tè, ad aspettare il ritorno dei padroni di casa.


Non si può fare, naturalmente. In ogni stanza c’è una signora pronta a rispondere a tutte le curiosità dei visitatori, sono volontarie del NT che sanno tutto sui beni che proteggono e ognuna di loro ci regala storie, spiegazioni e aneddoti sui tempi in cui Virginia e Leonard vivevano qui. Ci raccontano come passavano le giornate, come lavoravano con dedizione ognuno ai propri libri, come progettavano il giardino, del quale erano appassionatissimi, e quali ospiti avevano regolarmente – semplici amici per loro, ma famosi scrittori e pittori per noi, come i Bell, Morgan Forster, Lytton Strachey, Roger Fry, e persino T.S. Eliot, insieme a molti degli autori pubblicati dalla Hogarth Press, la mitica casa editrice fondata a Londra da Leonard Woolf. Visitiamo anche la stanza che da un certo momento in poi fu la camera da letto di Virginia, con un semplice lettino vicino alla finestra e una libreria piena di prime edizioni dei suoi romanzi, tradotti in oltre 50 lingue. Unico lusso concesso, un lavandino con acqua corrente e uno specchio. Il piccolo caminetto è l’elemento speciale della camera, decorato con piastrelle in ceramica sulle quali Vanessa aveva dipinto per la sorella il mare delle loro vacanze di bambine a St Ives, in Cornovaglia.

Il giardino è in piena fioritura, ed è una meraviglia. Decine di specie di piante diverse creano nuvole di mille colori, l’aria è profumata vicino all’angolo delle erbe officinali, e si fa più delicata mentre passeggiamo lungo vialetti fiancheggiati di rose. Dappertutto lo sguardo incontra fiori e alberi che però qui crescono più liberi di quanto abbiamo visto in altri giardini precedenti, creando un’atmosfera decisamente informale.

Se il White Garden di Vita traeva il suo fascino proprio dal suo essere perfettamente controllato, definito, costruito geometricamente nella sua bellezza color bianco puro, il giardino di Virginia, al contrario, concentra il suo massimo splendore nell’assoluta libertà della sua costruzione, nella fluidità senza barriere delle sue aiuole variegate, nel mescolarsi dei suoi colori e dei suoi profumi. L’atmosfera qui è lieve e libera, e la bellezza si esprime in maniera completamente naturale senza limitazioni. Una sorta di Stream of Beauty, perfettamente coerente con lo stile artistico della sua creatrice.

Sulla sinistra di uno dei vialetti, in una zona particolarmente tranquilla circondata da un basso muretto, troviamo una piccola vasca di ninfee con intorno alcune panchine dove sedersi a riposare.

Nell’angolo in alto a sinistra c’è un bell’albero fronzuto, e sul muretto lì accanto è stato sistemato un busto in bronzo di Virginia con sotto una targa, messa da Leonard nell’aprile del 1941 quando seppellì qui le ceneri della moglie morta suicida nel fiume Ouse.
E’ il punto più commovente di tutto il giardino, e forse il più sereno. C’è un senso di calma e armonia intorno, come se lo spirito di Virginia appartenesse a questo luogo e si trovasse finalmente nel posto giusto, in pace con tutto il resto.
Anche Leonard Woolf alla sua morte, avvenuta molti anni dopo, fu sepolto qui vicino a sua moglie.

L’ultima grande emozione di questa visita la viviamo nel frutteto, dove, in fondo a un piccolo sentiero ai confini col bosco, troviamo il rifugio che fu lo studio da lavoro di Virginia Woolf. Una minuscola casetta di legno bianco, con grandi vetrate per far entrare la luce naturale, al riparo sotto un magnifico castagno.

Nel rifugio furono ricavati due locali, un’anticamera dove si può entrare a dare un’occhiata e uno studio vero e proprio, più indietro, che si può ammirare solo attraverso un vetro. Li c’è ancora il grande tavolo che Virginia usava come scrivania, con sopra tutti i suoi oggetti: i fogli di appunti, le penne, le matite, gli occhiali rotondi, la lampada, le cartelle dove riponeva il materiale pronto, il cestino, sempre pieno di fogli scritti e poi stracciati, vittime del suo perfezionismo tecnico. Ogni mattina dopo colazione, Virginia si ritirava qui a scrivere e ci rimaneva per giornate intere, immersa nella letteratura, lontana dal resto del mondo. Una stanza tutta per sé.

Nella bolla silenziosa di questo spazio definito, al riparo da distrazioni o fastidi di qualunque genere, poteva concentrare al massimo la sua mente irrequieta e riversare tutto il suo talento nelle pagine dei suoi libri. “Mrs Dalloway”, “Gita al faro”, “Le onde”, “Orlando”, molti dei personaggi e dei romanzi di una delle scrittrici più grandi del ‘900, che ha cambiato il modo di scrivere di generazioni di autori, sono nati in questa piccola stanza su questa semplice scrivania di legno, immersa nel verde silenzioso di un frutteto dell’East Sussex.
A questo stesso tavolo Virginia ha scritto la sua lettera di addio all’amato marito Leonard, prima di riempirsi le tasche di sassi e avviarsi verso le fredde acque del vicino fiume Ouse.

Un luogo emozionante, reso ancora più vivo dal pannello con le fotografie d’epoca esposto nel piccolo ingresso, nelle quali si scopre una giovane Virginia in abiti belle époque seduta in questo stesso giardino, in compagnia dei suoi amici più cari, da Morgan Forster a Lytton Strachey a TS Eliot con la moglie. C’è anche la sua foto forse più famosa, che non mi stancavo mai di ammirare da studentessa, il ritratto di lei ventenne con lo sguardo perso in un mondo solo suo, i capelli scuri raccolti con grazia sulla nuca, il profilo delicato e antico così simile a quello di sua madre, che aveva fatto da modella per alcune delle meravigliose creature pre-raffaellite dei dipinti di Burne-Jones.

L’emozione che rivive in questo luogo è così intensa che, se ora mi voltassi e la vedessi camminare nel giardino diretta qui, col suo corpo esile e un po’ rigido, lo sguardo basso, la mente instancabile persa dietro chissà quale pensiero, non ne resterei affatto sorpresa. E’ questo tipo di magia che chiedo a certi luoghi, e questa casa non mi ha delusa, lo sento mentre richiudiamo il piccolo cancello di legno dietro di noi.

La nostra auto è parcheggiata poco distante in fondo alla strada, e a occhio intuisco che il fiume deve essere molto vicino. Ma non ho voglia di vederlo. Non è quella dell’acqua grigia, l’ultima immagine che voglio portare via da Rodmell. Virginia è là nel suo giardino, lo posso dire con certezza adesso. Sono stata a trovarla.

Il nostro hotel di stasera è a Brighton, una città che desideravo vedere da molto tempo. E’ un tipico Best Western come ce ne sono tanti, appena fuori dal centro, dignitoso e pulito ma che non ha un decimo del fascino inglese della casa di ieri sera. Però, con la sua posizione proprio davanti alla distesa cupa del canale della Manica, ha una dote che le case di campagna non hanno: una vista stupefacente. Chilometri di mare grigio e agitato, una fila tesa di bandiere colorate di là dalla strada, enormi nuvole trascinate nel cielo basso, e un vento pazzesco che soffia senza sosta. Questo posto già mi piace.

Sistemiamo le nostre cose e in tre minuti raggiungiamo il centro in auto, dove il traffico è più intenso. Lasciamo la macchina in un parcheggio sotterraneo, soluzione costosa ma senza alternativa, e ci dirigiamo subito sul lungomare fiancheggiato da begli edifici eleganti, fino al Palace Pier, che ci incuriosisce molto. Siamo qui per questo, in effetti. Questa per gli inglesi è una famosa località balneare dove si fanno le vacanze estive e ci si da ai divertimenti fino a notte fonda. A dire il vero, non credo che farei mai il bagno in queste acque agitate e scure, che per me sono già Oceano. Però il paesaggio è fantastico, e ci conquista immediatamente.

Il Palace Pier è un lungo molo di legno che si protende nel mare, largo e piatto, fissato su una doppia fila di pali sottili che si infilano nelle acque inquiete della Manica. Lungo tutto il molo, iniziato nel 1899, hanno costruito nientemeno che un Luna Park con tanto di giostre, sale giochi e bancarelle di dolciumi, compresi un paio di ristoranti. C’è persino un giro di montagne russe affacciato direttamente sull’acqua. Deve essere un’attrazione imperdibile, per gli amanti del genere.

Dove ora c’è questa incredibile attrazione, fino agli anni ’70 c’era un teatro; pare che un giorno rimase coinvolto in un incredibile incidente con una nave trascinata dalla tempesta, che si scontrò violentemente contro la base della struttura danneggiandola gravemente. Il teatro rimase distrutto, e non venne mai più ricostruito. Un teatro in bilico sul bordo del mare abbattuto dalla prua di una nave, pazzesco. Peccato, però. Doveva essere meraviglioso, venire a vedere uno spettacolo teatrale in questo posto assurdo, seduti tra acqua e vento. Passeggiamo fino in fondo al lungo molo, incantati.

Nonostante la folla e alcuni elementi architettonici moderni, la cosa davvero bella è l’atmosfera d’altri tempi che circonda il Pier, quel senso di divertimenti antichi, di giochi da bambini, e semplicità. Forse sono le assi di legno sul pavimento, il vento forte, la luce argentata del tramonto che sommerge tutto, o la differenza stridente con la nuova ruota panoramica elettrica che hanno messo da poco sulla spiaggia, fatto sta che il Palace Pier ha un’aria antiquata che ci piace davvero tanto.

Da qui possiamo vedere anche il West Pier, non troppo lontano, sulla destra dell’arco d’ingresso al Luna Park. Il West Pier era un molo di legno simile al Palace Pier ma più piccolo e più antico nel quale si trovava anche una sala da ballo, che fu chiuso a metà degli anni ’70. Una decina d’anni fa un incendio ha distrutto completamente le parti in legno del vecchio molo abbandonato, lasciando solo un groviglio di metallo scuro. Indeciso su come procedere al riguardo, il Comune di Brighton alla fine ha semplicemente deciso di non fare nulla per eliminare i resti del West Pier, che quindi è ancora al suo posto, perfettamente visibile in mezzo all’acqua, isolato senza più una passerella a collegarlo alla riva, annerito e contorto. Lo scheletro metallico di un’epoca che non c’è più.

Ceniamo in un pub caratteristico sul Palace Pier, in un salone decorato con oggetti insoliti e originali, tavoli sparsi da dividere con altri avventori e comode poltrone imbottite dove riposarsi al riparo della forza del vento teso che spinge contro i vetri.

Quando torniamo al nostro hotel, la luce d’argento già cola lenta sulla costa diritta della Manica. Il vento non accenna a diminuire, facendo impazzire i gabbiani e portando ovunque un acuto profumo di mare.