L'importante non è cosa guardi, ma cosa vedi
 
Venerdì 19 agosto 2016: Swansea – Dylan Thomas birthplace – Blaenavon – Big Pit National Coal Museum – Blackwood

Venerdì 19 agosto 2016: Swansea – Dylan Thomas birthplace – Blaenavon – Big Pit National Coal Museum – Blackwood

Notte silenziosa anche in questa piccola pensione, nonostante abbia le finestre proprio sulla via. Ma qui di notte non circola davvero nessuno… Stamani ci svegliamo sotto una pioggia battente e il cielo coperto non promette nulla di buono per tutto il resto della giornata. L’aveva detto la BBC Wales, ieri. La colazione è molto ricca e ben presentata nella piccola stanza da pranzo del B&B e ce la prendiamo comoda, per niente ansiosi di uscire sotto l’acqua.

Alla fine raccogliamo tutto e salutiamo il signore gentilissimo che ci ha ospitati, diretti poche strade più su. Come prima tappa di oggi facciamo un salto a vedere la casa natale di Dylan Thomas, che era nato qui a Swansea. Adesso è una casa privata, ma c’è la classica placca blu sulla facciata che indica che lui era nato proprio in questo edificio, e si possono fare visite guidate su prenotazione un paio di volte al giorno. Noi scattiamo solo qualche foto e ripartiamo, perché per oggi abbiamo un altro programma che ci attira assai di più.

Per il poco che possiamo vedere passando, Swansea non ci sembra particolarmente bella, è un po’ squallida e incolore a dire il vero, molto grande ma insolitamente vuota. Ci sono molte auto a creare traffico ma nessun carattere speciale, che per essere una cittadina sul mare è un po’ insolito. Peccato.

Ci spostiamo di una sessantina di chilometri verso est, sotto alle Brecon-Beacons, fino a Blaenavon, dove finalmente troviamo il Big Pit National Coal Museum. Non ci importa nulla della pioggia in effetti: oggi si va sotto terra.

Troviamo il Big Pit Museum con facilità, paghiamo il parcheggio e andiamo subito verso la biglietteria. L’ingresso è gratuito ma rilasciano comunque un biglietto numerato, per controllare con sicurezza quante persone entrano e quante escono. C’è la fila per andare giù a fare la visita del pozzo, ma la nostra attesa sarà di 50 minuti scarsi da trascorrere parte all’esterno e parte all’interno del museo, lungo un percorso dove sono esposte vecchie foto e bellissimi tabelloni informativi che illustrano la storia di questa importante miniera gallese. C’è anche un monitor che mostra le immagini dei visitatori che sono già scesi e che cominciano il loro percorso nelle gallerie, ombre vaghe che si muovono nel buio alla sola luce traballante delle lampade accese sui caschetti di protezione. Siamo già emozionati, non vediamo l’ora che venga il nostro turno.

Alla fine tocca anche a noi, e raggiungiamo la zona dove ci forniscono i materiali di protezione obbligatori: il casco, la cintura con attaccata la batteria per la lampadina, che è una batteria speciale senza rischio di scintille, la luce da fissare sul casco, e uno scatolotto di metallo chiuso con un gancio che somiglia a una specie di cestino del pranzo di un tempo. Come dice Luca, così se ci perdiamo abbiamo la razione di cibo per resistere finché ci trovano! Beh, spero proprio che non succeda perché il barattolo è piuttosto piccolo e quindi ci dovrebbero ritrovare in molto fretta…
Dobbiamo consegnare tutti gli oggetti che non possono scendere, in particolare tutto quello che ha una batteria, le fotocamere (sigh…), gli accendini, gli orologi, i telefoni, praticamente lasciamo tutto il nostro zaino in un mobiletto apposito chiuso a chiave e, come tutti, lo riprenderemo all’uscita. Non può scendere nulla che abbia un qualunque tipo di batteria e quindi crei la più piccola possibilità di scintille, a causa del pericolo di gas esplosivi che sempre possono circolare nelle gallerie di una miniera di carbone. Può sembrare una precauzione estrema, anche considerando che l’impianto non è più in attività, ma visto che i visitatori sono semplici civili e spesso famiglie con bambini, la prudenza non è mai troppa.

La nostra guida è un signore simpatico con uno strano accento che poi si rivela essere addirittura australiano. Ha fatto il minatore per oltre 16 anni, anche se non qui e non in pozzi così vecchi con condizioni di lavoro così antiquate e rischiose. Saliamo nella gabbia di ferro che fa da ascensore, che abbiamo visto mille volte nei film, con la nostra luce precaria accesa sulla testa e un po’ di batticuore, e scendiamo lentamente nel buio dei 90 metri di profondità del Big Pit.

Questo pozzo fu aperto nel 1860, è uno dei più vecchi e famosi, e naturalmente uno di quelli in cui le tecnologie moderne sono arrivate solo decenni dopo che fu aperto. Il lavoro qua sotto è stato durissimo e ha impegnato intere generazioni di famiglie di Blaenavon, con un picco massimo di quasi 1400 minatori impiegati negli anni di maggior sfruttamento e circa 250 posti di lavoro persi in un colpo solo al momento della sua chiusura, nel 1980. All’inizio naturalmente non c’erano la corrente elettrica o la tecnologia ad aiutare i minatori, quindi tutto il lavoro veniva fatto a mano o con l’aiuto dei cavalli. Con l’attività a pieno regime si potevano contare fino a 72 cavalli impegnati nei pozzi, che venivano portati giù per aiutare a fare i lavori più pesanti e che, una volta scesi, non sarebbero mai più tornati in superficie. Percorriamo gallerie basse e scure sorrette da archi di ferro e sostenute da tronchi, con un pavimento di terra fangosa che ormai ha quasi inglobato la rete dei binari e un continuo scorrere di acqua ai lati delle pareti. La guida ci spiega il giro che facevano i carrelli di carbone, che entravano vuoti e risalivano pieni in superficie, e i compiti dei vari uomini e dei bambini, anche loro regolarmente presenti nei pozzi, mentre le donne che restavano all’esterno avevano ruoli fondamentali nella gestione delle famiglie del tempo.
I grossi carrelli erano di ferro, li incontriamo abbandonati e arrugginiti in vari punti del percorso, e contenevano 1 tonnellata di carbone ciascuno; ne risalivano 20 per volta. Questo giacimento era ricco e il minerale era di facile estrazione, quindi la miniera ha lavorato ininterrottamente per circa 120 anni prima di essere chiusa per ragioni di sicurezza, e anche perché in altre miniere più moderne si è cominciato a ottenere questo stesso minerale con meno rischi e a costi inferiori, tanto che anche in Galles ormai il carbone conviene più comprarlo che scavarlo.
Inutile dire che le condizioni di lavoro erano terrificanti: turni di 12 ore al freddo e all’umido, senza luce naturale né aria fresca, immersi nel rumore delle trivelle e nella polvere e al costante pericolo di esplosioni incontrollate, all’inizio senza neppure le protezioni di caschi e guanti che arrivarono solo dopo. In cambio di tutta questa fatica e questo sacrificio, spesso i lavoratori non ricevevano neppure un vero e proprio salario ma delle specie di monete rotonde con un foro in alto, dei token da spendere esclusivamente nel negozio del centro minerario, per acquistare prodotti di prima necessità. Sai la soddisfazione.
Facciamo un sacco di domande col nostro gruppo, il giro è molto interessante e la guida spiega tutto con precisione, si vede che sa di cosa parla, anche se non ha mai lavorato in condizioni così difficili per fortuna. Ci racconta che qui alcune gallerie erano così basse che gli uomini dovevano lavorare in ginocchio per terra, o addirittura sdraiati. Per far circolare l’aria nel modo giusto ed evitare rischi di pericolosi passaggi di gas, in alcune gallerie erano state messe delle porte di legno che chiudevano il corridoio. Tenere chiuse le porte era fondamentale, ma serviva anche che venissero aperte all’arrivo dei cavalli che tiravano i vagoni pieni di carbone o quelli vuoti da riempire. Allora, un bimbetto di 6 o 7 anni, piccolo e senza necessità di usare una forza particolare, doveva restare seduto per 12 ore nel buio totale, al freddo, in ascolto, e aprire la porta quando sentiva lo scalpiccio del cavallo che si avvicinava. Dopo che era passato, richiudeva, e aspettava il prossimo. Nel buio, perché la torcia con la fiamma era pericolosa, seduto per terra al freddo per tutto il tempo. La guida ci fa spegnere tutte le nostre luci sui caschi e restiamo nell’oscurità e nel silenzio totali, per capire come poteva essere, e vedere quanto tempo resistiamo. Non passano neanche 20 secondi che una signora riaccende la sua lampada, sgomenta. E non siamo neppure dei bambini.
La struttura delle gallerie è ancora più o meno com’era nel 1980, quando la miniera fu chiusa, e non è difficile farsi un’idea generale di come lavoravano questi uomini coraggiosi e orgogliosi ogni giorno, ma ovviamente non sarà mai neppure una pallida ombra di come doveva essere davvero stare qui sotto per anni, a lavorare in queste condizioni disumane. Erano chiamati minatori invece di schiavi, ma era solo un dettaglio semantico.
Una delle cose più curiose che vediamo in funzione è la Lampada di Davy, una lanterna in cui arde una vera fiamma che però, grazie a un vetro chiuso e una doppia retina di rame molto fitta, non può assolutamente uscire dalla lampada e causare disastri. Inoltre, il suo sistema a rete lascia entrare una minima quantità di eventuali gas presenti nei locali così che, quando la fiamma diventa blu, rivela la presenza invisibile di metano nell’aria intimando ai lavoratori di abbandonare subito il luogo in cui si trovano, mentre invece se la fiamma tende a spegnersi indica che c’è una concentrazione troppo elevata del pericolosissimo monossido di carbonio, e anche in questo caso avvisa i minatori che è meglio scappare via. Non lo sapevo, ma già una minima concentrazione del 2% di monossido può uccidere una persona in mezz’ora, mentre se arriva al 4% bastano solo 15 minuti per non avere scampo. La lampada si chiama col nome del suo inventore, e nonostante le nuove risorse tecnologiche, resta ancora oggi lo strumento più sicuro e affidabile che i minatori scelgono di portare con sé nei tunnel del carbone. Il monossido è anche il motivo del nostro cestino di metallo attaccato in vita, che non è la razione di cibo prevista da Luca purtroppo, ma una più utile maschera anti-gas. In caso di pericolo si tira fuori e si indossa, e il tempo a disposizione per uscire salvi da un locale invaso dai gas si allunga fino a un’ora. Buono a sapersi. Inevitabilmente viene fuori anche la storia dei canarini, e la guida conferma che c’erano davvero, in gabbiette appese in alto vicino al soffitto, perché il gas tende a essere più leggero dell’aria e a salire. Se il canarino smetteva di cantare e soffocava, indicava la presenza di gas a concentrazioni troppo alte con rischio di incendi o esplosioni, e tutti dovevano scappare. Questo, prima dell’arrivo della lampada di Davy, che ha salvato molte più vite di quanto non abbiano fatto i poveri canarini.
Alla fine del giro, oltrepassate diverse porte di legno e percorsi diversi locali più o meno ampi comprese una sorta di stalle dove venivano ricoverati gli sfortunati cavalli che lavoravano qua sotto, arriviamo nuovamente all’ascensore di ferro. Entriamo nella gabbia e riemergiamo lentamente dal fondo dei 90 metri del pozzo, passando dal buio sferragliante del Big Pit alla luce grigia del giorno. È vero che là sotto l’aria ci è sembrata fresca quando siamo scesi, ma se d’estate si percepisce questo effetto fresco, in inverno i minatori passavano dal freddo gelido della superficie alla temperatura costante del sottosuolo, che poteva essere parecchi gradi più alta di quella esterna. Le macchine in funzione e le esplosioni delle estrazioni rendevano poi l’ambiente estremamente caldo e soffocante, il che andava solo a peggiorare ancora di più le condizioni di lavoro. E’ un vero sollievo, essere di nuovo all’aperto.
Lasciamo le attrezzature di sicurezza e riprendiamo lo zaino, quindi salutiamo con gratitudine la nostra guida, lasciamo una piccola offerta nel box per il mantenimento del museo e facciamo un altro giro fuori. Il paesaggio è incredibile, colline morbide coperte di erica viola e erba giallastra, e segni di gallerie sotterranee visibili anche da sopra, scavate anticamente quando la miniera era solo di ferro. Questo sito è patrimonio dell’UNESCO e lo stanno sempre più valorizzando e migliorando, perché più gente possibile possa venire a vivere di persona un pezzo fondamentale della storia del Galles.

Facciamo uno spuntino in una delle caffetterie, e scopriamo con sorpresa che ha un nome – e un’antica origine – italiana: Bracchi’s. Pare che a metà ‘800 molti italiani colpiti dalla crisi economica arrivarono fino qua in cerca di una possibilità di riscatto, e la loro attività primaria divenne, abbastanza prevedibilmente, la ristorazione. La famiglia Bracchi, e poi molte altre, aprirono caffetterie e ristoranti in quest’area, divenendo una comunità di immigrati sempre più numerosa e laboriosa nelle Breacon Beacons. Mangiamo sandwich e frutta e beviamo un tè, prima di uscire di nuovo fuori per continuare la nostra visita.

Ci sono un paio di mostre molto interessanti negli edifici intorno al pozzo, che visitiamo con piacere. In una sono esposti gli attrezzi originali e gli abiti dei lavoratori dell’epoca, con bellissime foto di minatori sorridenti dai volti anneriti dal carbone, le tute sporche, gli scarponi malandati, gli attrezzi attaccati alla vita, le mani distrutte dalla fatica, ma una luce scintillante negli occhi.

C’è la zona dei bagni, arrivata solo negli anni ’40, dove i lavoratori potevano finalmente lavarsi e rinfrescarsi a fine turno prima di andare a casa, senza doversi portare dietro la sporcizia e la polvere venute su con loro dal ventre della terra.

In uno spazio esterno suddiviso in vari capannoni disposti intorno al castello minerario si possono vedere vecchi motori ora silenziosi, fucine spente, stalle disabitate, e poi ventole immobili, scavatori arrugginiti, trivelle a riposo da decenni, vagoncini ormai vuoti e binari che si perdono nel nulla: resti muti e polverosi di un’epoca lontana che non tornerà più.

Quando il Big Pit è stato definitivamente chiuso le opinioni sono state contrastanti, come sempre accade in questi casi. Per qualcuno è stato terribile, una grave decisione che ha impoverito l’economia della zona e le famiglie di qui la cui sopravvivenza era legata a doppio filo alla vita del pozzo, gettandole in una crisi che ancora non si è risolta del tutto. Per altri è stata invece una gioia e un sollievo, un atto dovuto che doveva essere deciso ben prima del 1980 per dire basta allo sfruttamento degli uomini di qui, costretti per generazioni a lavorare in condizioni terrificanti pur di far sopravvivere le loro famiglie. Non so chi abbia ragione ma, come ho già detto, so che per me i minatori sono eroi a prescindere, perché neppure il bisogno di dare da mangiare a un figlio sarebbe mai capace di spingermi nelle viscere della terra. Onore a tutti loro, dunque.

Mi è piaciuto moltissimo questo giro del Big Pit, credevo di avere più paura di scendere sotto terra invece no, anzi la mia ammirazione per il coraggio di questi lavoratori se possibile è ancora aumentata. Uomini che scendono centinaia di metri sotto la superficie del mondo a far esplodere ad arte pezzi di minerale da mandare su, perché noi che siamo fuori possiamo viaggiare, illuminare la nostra casa, o farci il caffè. Non so se c’è un lavoro più ultimo di questo, che si fa senza cielo né aria, ma se c’è, non mi viene in mente.

Lasciamo la zona di Blaenavon diretti a Blackwood, dove abbiamo la stanza per stasera. La casa si rivela una delle migliori mai viste, certo la più elegante di tutto il viaggio.

Una casa fantastica arredata con gusto raffinato, con un giardino incantevole, una camera grande e bellissima e un bagno spettacolare, con vasca su piedi e doccia in vetro a parte che sarà più di un metro di lunghezza.

La signora è gentilissima e ci consiglia il pub qui accanto per cena, dove infatti mangiamo molto bene in una bella atmosfera tipica e amichevole, mentre fuori ha ripreso a piovere.

Rientriamo presto e ci riposiamo, già tristi all’idea che resteremo qui solo per una notte. Domani si riparte per altre mete, ma non ci dimenticheremo mai il Big Pit.

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