Il mondo di Sally

L'importante non è cosa guardi, ma cosa vedi
 
Il mondo di Sally

Mercoledì 22 giugno 2011: Moni Tsambika basso – spiaggia di Tsambika – Epta Piges – Odysseus

Questo è un giorno particolare, noi siamo qui ma oggi la nostra testa è a casa con un nostro familiare che deve affrontare una prova importante, e ogni cosa è ad un tratto secondaria. Per questo abbiamo deciso di restare nei paraggi di Lindos, e di dedicarci all’esplorazione di un’area ristretta. Facciamo colazione presto e prepariamo le nostre cose mentre il sole già splende con forza, quindi ci mettiamo in strada verso Kolymbia diretti alla famosa spiaggia di Tsambika. Ma prima di raggiungerla facciamo una sosta in un monastero che abbiamo notato diverse volte passando in auto senza mai fermarci, Moni Tsambika, che la guida descrive come un luogo molto interessante. Raggiungerlo è facilissimo, l’ingresso è segnalato lungo la via da tre grandi archi bianchi sormontati da una croce, e volendo si può entrare direttamente con l’auto.

Si tratta della nuova sede dell’antico monastero di Tsambika situato in cima alla collina che sovrasta la spiaggia omonima, nel quale era conservata l’icona della Vergine Tsambika che fu trovata proprio in vetta a quelle rocce a picco sul mare. La leggenda racconta che nel XVI secolo un pastore, la cui moglie non riusciva ad avere figli, una sera vide qualcosa luccicare in cima al promontorio roccioso, ma pensò che fosse solo qualcuno che aveva acceso una candela. Il fenomeno si ripeté per diverse sere, finché lui preoccupato avvisò gli altri uomini del paese e tutti insieme decisero di andare a vedere di cosa si trattasse. Scalarono i 300 metri della collina pietrosa e lì scoprirono che la luce era il riflesso di una candela accesa davanti all’Icona d’argento di una Madonna. La portarono in paese e presto si sparse la voce di questo misterioso ritrovamento, così poco tempo dopo dei religiosi arrivarono da Cipro narrando di un’Icona come quella rubata da un monastero del loro paese. La Vergine fu restituita, ma dopo alcune sere il pastore vide di nuovo la luce sulle rocce. La Vergine fu raccolta e restituita 3 volte, e ogni volta fu ritrovata in cima a quella stessa montagna. Così alla fine tutti compresero che quello era il luogo dove doveva stare, e lì fu costruito il Monastero delle Madonna che Riluce (significato di ‘Tsambika’). Poco tempo dopo la moglie del pastore riuscì ad avere un figlio, e lo stesso miracolo si ripeté nei secoli seguenti per moltissime donne che salirono a piedi nudi fino in cima alla collina a chiedere questa grazia. Per ragioni di sicurezza e di miglior controllo, in seguito è stato costruito questo secondo monastero a livello della strada, molto più facilmente accessibile per il pubblico e più semplice da proteggere contro eventuali ladri, nel quale è ora possibile vedere l’Icona originale della famosa Madonna miracolosa. Oltre gli archi, la prima cosa che colpisce nel cortile davanti al monastero è un enorme albero con magnifiche fronde che partono da terra e creano un ampio ombrello di una bellezza spettacolare, un miracolo naturale più convincente di qualunque leggenda. Superato l’albero scendiamo una scaletta e siamo davanti alla piccola chiesa, affiancata da un campanile candido ornato di bifore su tutti i lati che lo rendono leggero come un merletto.

All’interno della piccola chiesa c’è fresco e silenzio, la semioscurità ci accoglie con gentilezza senza imporci nessuna soggezione. Il tempo di abituare gli occhi alla luce scarsa, e ci rendiamo conto della bellezza speciale di questo posto. La navata è unica, lunga non più di una ventina di metri ma arricchita da bellissimi arredi in legno e sormontata da un magnifico soffitto a volte crociate con le vele dipinte di blu e oro, dalle quali pendono un paio di eleganti lampadari di cristallo. Scranni, teche, altari e colonne sono veri capolavori in legno scolpito e ogni dettaglio è curato e ricco, dalle luci ai turiboli, dalle panche ai leggii intagliati da tralci di fiori e foglie. Ma su tutto colpisce in particolare il meraviglioso pavimento, anche qui costruito con la tecnica delle pietre bianche e nere che stavolta formano un tappeto di linee a zig-zag, in un’alternanza di chiaro e scuro di grande impatto visivo.


Il cuore della chiesa però è in fondo, nell’angolo a destra dell’iconostasi ricca di immagini di Santi, dove è stata sistemata l’Icona d’argento della “Panagia Tsambika”, la “Santissima Vergine che risplende di luce”. In un quadretto dalla cornice dorata, una piccola immagine incisa nell’argento lascia scoperti i volti dipinti su legno di una giovane Madonna con in braccio il Salvatore. Tutto intorno, drappi di velluto rosso e pizzi a sottolineare l’importanza di questo angolo del monastero, e soprattutto una quantità notevolissima di ex-voto d’oro e d’argento, dono e simbolo delle grazie ricevute dai fedeli da questa Madonna miracolosa. Sono davvero tanti, e su quasi tutti è riconoscibile la sagoma di un bambino.


L’atmosfera è tranquilla e intima, ci sono solo un altro paio di visitatori oltre a noi, due signori inglesi che commentano impressionati la bellezza degli arredi e del pavimento in particolare, ma escono dopo una breve sosta lasciando che tutto torni nel silenzio. La luce potente dell’esterno entra con dolcezza dal portone principale, mentre un fascio di luce trasversale illumina la Panagia dalla porticina laterale sulla sinistra dell’altare, dalla quale alla fine anche noi usciamo di nuovo fuori.

Dietro alla chiesa c’è il monastero, e una piazzetta ombreggiata da alberi frondosi che regalano frescura e pace, dove sono sistemate panchine e tavolini per chi ha bisogno di una piccola sosta ristoratrice. In fondo alla piazza c’è un negozietto di souvenir religiosi e cartoline, e al di fuori, sotto un loggiato, è stato sistemato un lungo tavolo sul quale si trovano cestini pieni di bottigline e tappini di plastica. Basta lasciare 1 euro, e si può prendere una bottiglina, spillare l’acqua dal contenitore d’argento che si trova sull’altarino in mezzo agli alberi e tapparla con cura, per portare via con sé un piccolo distillato di miracolo. Il potere della fede non smetterà mai di stupirmi.

Lasciamo il Monastero immerso nella sua pace e nella luce infinita di questa isola che è decisamente tutta “Tsambika” e ci rimettiamo sulla via principale in direzione della spiaggia, che è solo a pochi chilometri da qui.

Il bivio sulla destra è segnalato molto chiaramente, la stradina che porta al mare è lunga e con diverse curve, e ci sono perfino un paio di piccoli ristoranti sulla destra della via che sembrano molto accoglienti. Non ci sono molte auto in giro, in compenso incontriamo diverse caprette sul ciglio della strada, libere e tranquille, sembrano molto simpatiche e non hanno nessuna paura quando proviamo ad avvicinarle.

La spiaggia ha un parcheggio grandissimo, gratuito naturalmente, che per fortuna non sembra particolarmente pieno. Paghiamo ad un ragazzo gentile i soliti 8,00€ per 2 lettini e un ombrellone che scegliamo proprio in prima fila, e ci sistemiamo all’ombra del sole potente di fronte a una distesa d’acqua così azzurra e luccicante da fare male agli occhi. Il posto è davvero magnifico, la spiaggia è lunga e abbastanza fine, fatta di granellini di pietra colorata che scappano sotto i piedi facendoci affondare, e che diventano un po’ più grandi sul bagnasciuga dove il movimento continuo delle piccole onde le fa risuonare dolcemente. Dietro alla spiaggia si vedono tutto intorno le colline di verde e roccia, una cornice di bellezza e protezione che è un piacere guardare. Ci sono anche un paio di piccoli punti di ristoro di quelli classici che amo sempre ritrovare, capaci di offrire un tetto di palme sui tavolini sistemati direttamente sulla sabbia, gyros pita e frutta, e una birra fresca di fronte al mare più azzurro che si possa vedere. Mai come adesso vorremmo che tutti i nostri che sono a casa fossero qui con noi in questo momento.

Passiamo la giornata tra spiaggia e bagni, il sole è cocente e l’acqua calda abbastanza da poterci rimanere a lungo senza problemi, cristallina e scintillante come un gioiello.

Nonostante siamo vicinissimi al bagnasciuga abbiamo paura di non sentire il telefono che ci deve portare notizie, per cui facciamo un po’ a turno a restare sotto l’ombrellone accanto al cellulare. Nei miei turni sotto l’ombrellone ho un libro da leggere e la maglia da fare, eppure, nonostante questi siano due dei mie passatempi preferiti, non ho la testa per concentrarmi e lascio perdere quasi subito. Riesco solo a fare qualche foto in giro, abbagliata dalla bellezza calma e assoluta che ci circonda, ma poche anche di quelle. Me ne sto più che altro sdraiata in silenzio ad ascoltare il suono del mare che arrotonda le pietre cullandole all’infinito con la sua carezza, a guardare Luca che fa il bagno da solo, un piccolo puntino in quell’azzurro smisurato eppure il centro del mondo per me, sento che farei qualunque cosa per lui e invece non posso fare nulla, nulla di più che stare qui ad aspettare con lui accanto al suo telefono.

Le ore passano lente e silenziose senza che accada niente, sapevamo che sarebbe stata una giornata lunga. Il sole continua a splendere con forza, l’acqua a brillare, il cielo è una cupola azzurrissima che pare immutata da anni. E’ solo a metà pomeriggio che ci rendiamo conto di avere un po’ di fame, così decidiamo di arrivare fino a uno dei piccoli bar della spiaggia per mangiare qualcosa. Prendiamo due gyros pita e delle bibite, ed è proprio mentre mangiamo che finalmente il cellulare squilla. E’ come se la bolla di vetro di questa giornata immobile improvvisamente si spezzasse, e l’aria ricominciasse a circolare libera. Sembra che sia andato tutto bene, possiamo tirare un sospiro di sollievo, tra pochi giorni ci vedremo e sapremo tutto nei minimi dettagli. Di colpo tutto cambia, o forse torna normale. Ritornano le nostre voci, i sorrisi, le parole, torna la voglia di inventarsi qualcosa di nuovo da fare prima che anche questo giorno finisca. Raccogliamo le nostre cose, ci cambiamo e salutiamo questa magnifica spiaggia tornando verso la via principale. Le caprette sul ciglio della strada ci guardano di nuovo passare senza spostarsi di un millimetro.

Non lontano dalla deviazione per Tsambika avevamo visto il bivio sulla sinistra per Epta Piges, le Sette Sorgenti, le cui descrizioni ci avevano molto incuriosito. Si tratta di una zona boscosa all’interno dell’isola nella quale sono state scoperte sette diverse sorgenti di acqua freschissima e limpida, che furono incanalate e utilizzate per le irrigazioni già nei primi decenni del secolo scorso. Si raggiungono dopo pochi chilometri di via stretta ma perfettamente asfaltata, che termina in un parcheggio al limitare del bosco. La zona è fresca e ombreggiata, la sensazione è piacevole dopo tutto il calore assorbito sulla spiaggia. Non c’è molta gente perché è già il tardo pomeriggio, ma questo rende la nostra visita ancora più gradevole. Accanto al parcheggio, dove gironzolano tranquilli diversi pavoni, c’è un piccolo bar ristorante, e l’inizio del sentiero che porta all’interno del bosco.

L’acqua delle sette sorgenti arriva da punti diversi del bosco, ma finisce tutta in un piccolo laghetto che è il centro di attrazione dei visitatori, la meta verso la quale tutti tendono nelle loro passeggiate lungo i diversi sentieri. Ci sono alcune indicazioni tra gli alberi, ma il bosco è grande e il laghetto piuttosto nascosto, quindi in molti approfittano della particolare scorciatoia che è stata messa a disposizione del pubblico per raggiungerlo. Si tratta di un tunnel in effetti, un tunnel di pietra scavato sotto al bosco che taglia dritto in direzione del lago, nel quale di fatto scorre l’acqua di una delle sorgenti che alimentano il laghetto stesso. Basta seguire quell’acqua, per arrivare alla meta desiderata. Il fatto è che quello che chiamano tunnel è in realtà poco meno di un budello sotterraneo, un cunicolo alto meno di due metri e stretto una cinquantina di centimetri, lungo che non si vede la fine e buio come la notte. Insomma, non è esattamente roba per me. Luca prova a proporlo scherzandoci su, ma io mi sento soffocare solo a guardarlo da fuori.

Lasciamo perdere e cominciamo a camminare per il bosco alla ricerca di un altro modo per arrivare al laghetto. Incrociamo solo poche altre persone, il bosco è ampio e i sentieri molto ramificati, alcuni spariscono nel nulla, altri si arrampicano in maniera improponibile per noi che arriviamo dalla spiaggia con le infradito, e alla fine perdiamo anche le indicazioni sugli alberi senza esserci neppure avvicinati alla nostra meta. Così ritorniamo sui nostri passi, il bosco è bello e fresco ma ormai siamo decisi a vedere questo lago che la guida descrive come verdissimo, e non vogliamo uscire sconfitti da questa sfida. Ma quando arriviamo di nuovo vicino all’imboccatura del tunnel il mio interesse per la vista del lago vacilla decisamente, non sono certa di potercela fare. Luca entra nel canale e mi incoraggia, così provo anch’io a metterci almeno i piedi, ma l’acqua che corre sul fondo è così gelata che ho quasi uno shock. In più, la corrente è molto forte e spinge di fatto dentro al cunicolo, facendo aumentare la mia ansia. Ma quando sto per tornare indietro, mi accorgo che una coppia di ragazzi francesi è già scesa nel canaletto dietro a noi, anche loro molto poco convinti e incoraggiati solo dalla nostra presenza, e pensando che stavamo per entrare nel tunnel hanno deciso di unirsi a noi per non affrontarlo da soli. A quel punto non possiamo più tornare indietro. Ingoio il rospo, faccio una specie di sorriso stirato ai ragazzi e mi attacco con le mani alle spalle di Luca, che è il primo del nostro quartetto a infilarsi nel buco nero, tutto contento e curioso di questa avventura. Ok, se lui va io vado, non c’è problema. Che sarà mai in fondo, sarà un tunnel come gli altri, avrà una fine prima o poi e usciremo fuori a vedere finalmente questo famoso lago verde. Già, facile a parole. Un po’ meno nei fatti. Dopo poco che camminiamo ho l’impressione che il cunicolo si sia fatto ancora più stretto e buio, non si vede assolutamente nulla, chiudo gli occhi tenendomi stretta alle spalle di Luca cercando di respirare regolarmente e comincio a chiedere se vede almeno un po’ di luce in lontananza. Niente da fare, solo buio e pareti vicinissime, e il rumore dell’acqua gelata che ci scorre alle caviglie continuando a spingerci verso il nulla. Non voglio pensare a cosa accadrebbe se dovessimo incontrare qualcuno che percorre il tunnel in senso opposto al nostro, non ci sarebbe spazio per lasciar passare neppure un bambino. Mi sembra di camminare da ore quando finalmente si sente un refolo d’aria arrivare da qualche parte. Mi illudo che siamo vicino all’uscita e apro gli occhi, invece scopriamo che siamo giusto a metà del percorso. Dal soffitto del cunicolo parte un pozzo cilindrico che arriva su in superficie, l’aria e la pochissima luce che vediamo arrivano proprio di lì. Anche i ragazzi dietro di noi restano delusi, soprattutto lei sperava che il percorso sotterraneo fosse finito, invece dobbiamo continuare ancora. Ci rinfiliamo nel buio, i piedi ormai così gelati da non sentirli più e le pareti di nuovo vicinissime. Procedo con gli occhi chiusi per la maggior parte del tempo, respiro lentamente e a fondo cercando di controllare l’ansia con la certezza di non poter resistere ancora a lungo, ma ad un certo punto, quando li riapro, vedo una luce fioca che illumina le pietre intorno a noi. Non viene dall’uscita, è invece il ragazzo che cammina dietro di noi che ha acceso il display del suo cellulare e sta illuminando in qualche modo questo spazio ristretto, tanto per rassicurare un po’ la sua fidanzata che è anche più in ansia di me. Per quanto esile, quella piccola luce sembra un faro acceso in questo budello buio capace di ridarci aria e speranza. Mi volto immediatamente verso di lui e lo ringrazio di cuore, i sorrisi e la presenza di questi ragazzi ci incoraggiano a resistere, non siamo soli qui, arriveremo alla fine. E ce la facciamo, naturalmente. Dopo un tempo indefinito cominciamo a vedere un punto luminoso lontano davanti a noi, e poi a sentire aria fresca che ci soffia incontro sempre più decisamente. Il cunicolo di pietra soffocante finisce, e finalmente siamo di nuovo fuori nella luce e nello spazio aperto. E di fronte a noi, a pochi metri tra gli alberi, appare il lago più verde che abbiamo mai visto. Una pozza d’acqua limpidissima e profonda qualche metro, alimentata dal canale gelato che è uscito con noi dal tunnel e colorata dal riflesso degli alberi che la circondano completamente, luminosa e splendente come un gioiello di giada.


L’aria è fresca e profumata, il gorgoglio dell’acqua che scorre è il suono più piacevole che si possa sentire adesso che siamo fuori, liberi da quel tunnel buio e stretto. Mi siedo su una roccia a riposarmi un po’ dopo la fatica di questa passeggiata sotterranea che ha messo a dura prova la mia claustrofobia, e lentamente riesco a riprendermi. La bellezza che ci circonda è tale, la pace è così totale e assoluta che in breve tempo riesco a dimenticare la paura e a godermi di nuovo la luce.

Il bosco è bello, folto ma chiaro, molta luce passa attraverso i rami fitti. Ora che ci siamo arrivati facciamo un giro intorno al piccolo lago di smeraldo per vedere i dintorni, lungo un sentiero appena accennato tra gli alberi che porta al limite del suo lato più lungo. Lì scopriamo che, essendo un lago artificiale costruito per l’irrigazione, comprende una chiusa per regolarne il livello che finisce in una cascata abbastanza alta. L’acqua scivola giù lungo la parte di pietra in un salto di diversi metri, con un suono scrosciante e allegro. Scendiamo una scala di cemento per arrivare alla base della cascata, e arriviamo fino alla ruota di ferro che comanda l’apertura della piccola chiusa. C’è un bel fresco e nessun altro oltre a noi, questo è decisamente un buon orario per questo tipo di visita, sia per la luce che per la tranquillità.

Torniamo verso il tunnel, nel quale una coppia di italiani si sta infilando per tornare indietro, ma con tutta la buona volontà non ce la faccio proprio ad affrontare di nuovo quel buio soffocante, oltretutto camminando contro corrente. Decidiamo per i sentieri di superficie, e pazienza se ci metteremo un po’ di più, la passeggiata all’aperto è comunque molto più piacevole. Ci mettiamo meno del previsto a tornare a piedi fino al ristorante, e quando lo raggiungiamo ci prendiamo una granita e ci sediamo a riposarci un po’. Dai tavolini lungo il ruscello notiamo che si può proseguire dalla parte opposta a quella esplorata all’inizio per vedere dove originano le sorgenti, e decidiamo di andare a vedere. C’è un ponticello di legno subito dietro alla struttura, e in quella parte di bosco si trovano le fonti dalle quali nascono i rivoli d’acqua che poi si riuniscono e corrono nel tunnel fino nel piccolo lago. L’acqua limpidissima scorre tra rocce e radici di alberi formando pozze e ruscelli più o meno grandi, e proprio sotto al ponte scopriamo che altre creature oltre agli umani traggono beneficio da questo dono della natura. Bellissime anatre nuotano sulla superficie mossa dalla corrente cercando cibo tra gli anfratti rocciosi, mentre anguille enormi scivolano silenziose sotto il pelo dell’acqua sfiorando quasi le zampe degli uccelli. Restiamo sul ponticello a osservarle per un po’, nel fresco del bosco, recuperando un po’ di pace dopo questa giornata così lunga e tesa. Ma alla fine dobbiamo deciderci ad andare, si sta facendo tardi e dobbiamo ancora cenare.


Al parcheggio non c’è quasi più nessuno, sono rimasti solo i pavoni ad aspettarci. Un paio ci vengono incontro senza paura, forse in cerca di qualcosa da mangiare, ma poi non si fanno avvicinare troppo. Però sempre pavoni sono, e nonostante un lieve vento, non perdono l’occasione di mettersi in mostra in tutto il loro splendore per salutarci.


Rientriamo a Lindos che è quasi il tramonto, le luci cominciano ad accendersi e l’aria, finalmente meno bollente, è carica soprattutto del profumo del mare e dei fiori.

Ci laviamo e cambiamo e scendiamo in paese che è già buio. Scegliamo il ristorante Odysseus per mangiare qualcosa di veloce, è un locale particolare che, come quasi tutti, si sviluppa su due piani, ma è molto più curato di altri che abbiamo visto. È situato all’interno di un antico palazzo storico che comprende un cortile circondato da mura alte e candide e pavimentato con pietre colorate che formano splendide decorazioni, i tavoli sono sistemati tra gigantesche piante di limone cariche di frutti e tralci di buganvillee che corrono in giro, e bocce di vetro con candele accese sono sparse dappertutto, sui tavoli, sulle scale, sui muretti, a creare un’atmosfera di grande magia.

Ci sediamo a un tavolino del piano superiore vicino alla balconata, per avere la vista su tutta quella bellezza, e ordiniamo un piatto di insalata calda di mare, calamari fritti e dolci. È tardi per una cena completa e siamo stanchi, ma il cibo è all’altezza della bellezza del posto e la serata non si poteva concludere in maniera più piacevole.

Siamo gli ultimi a lasciare il locale, rientriamo passeggiando per le vie di Lindos in parte ormai deserte, e camminiamo lentamente per goderci la magia di questo posto bellissimo ancora per qualche minuto. È stata una giornata strana, fatta di tante emozioni e tensioni che l’hanno resa lunga e confusa ma ora finalmente sembra che i nodi si stiano sciogliendo e tutto stia tornando alla normalità, mentre mettiamo in fila i nostri passi lungo queste stradine antiche e immutabili. Il cielo è nero ma lo resterà per poco, il sole lo invaderà prepotente tra poche ore e ne resterà il padrone assoluto per tutto il giorno, e speriamo che domani porti con sé ore più luminose di quelle appena passate.

Martedì 21 giugno 2011: Rodi medievale – Palazzo del Gran Maestro dei Cavalieri – Acquario

Colazione presto stamani e partenza sulla nostra Jimny per Rodi città, situata sulla punta all’estremo nord dell’isola a poche miglia marine dalle coste della Turchia. Vogliamo vedere il più possibile della cittadella medievale fortificata che pare sia perfettamente conservata, tanto da essere stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 1988. Il viaggio procede senza particolari problemi, il traffico è scarso e in buona parte dovuto solo al movimento dei turisti che si spostano da un punto all’altro, e anche i lavori stradali non rallentano troppo lo scorrimento dei veicoli sulla via principale. Fa molto caldo, nel cielo azzurrissimo domina un sole potente che già di mattinata si fa sentire, ma l’aria è abbastanza secca e non c’è afa. Impieghiamo circa un’ora per raggiungere la città, e almeno venti minuti prima di trovare un parcheggio dove lasciare l’auto. Il movimento di veicoli, camion e autobus è decisamente più intenso qui, il traffico è caotico e i parcheggi sono pochi e quasi tutti occupati, oltre che a pagamento. Quando finalmente ne troviamo uno scopriamo che l’unico modo per pagare è con il parchimetro, e a 1,50€ l’ora dovremmo avere una improbabile quantità di monete in tasca per poterci fermare tutta la giornata. Dopo un altro paio di giri dalle parti della spiaggia principale, molto grande e bella ma un po’ affollata, troviamo finalmente un posto libero lungo la passeggiata a mare, non troppo lontano dal centro e soprattutto gratis. Ci abbiamo messo un po’, ma almeno siamo sistemati, e possiamo cominciare la nostra esplorazione del centro. Una breve passeggiata ci conduce direttamente al famoso porto di Mandraki, delimitato da un ampio arco che termina nelle due colonne sormontate dai cervi simbolo della città.

E’ in questo punto che pare fosse sistemato il famoso Colosso di Rodi intorno al 300 a.C., una immensa statua bronzea alta oltre 30 metri dedicata al Dio Helios, talmente spettacolare da essere annoverata tra le 7 meraviglie del mondo dell’antichità. La leggenda dice che la statua del Dio, che risplendeva di bronzo lucido sotto il sole sorgente, stava a cavalcioni dell’entrata del porto e le navi dovevano passare sotto le sue gambe per arrivare ai moli. Rimase in piedi oltre 50 anni, e si racconta che quando precipitò in mare a causa di un violento terremoto, la gente veniva ad ammirarne i resti immersi nelle acque trasparenti del porto, tanto era ancora magnifica la sua vista. Da studi più recenti si sa che probabilmente la sua vera collocazione non era questa, e neppure la posa era quella classica a cavallo del porto, ma resta comunque un’opera importante che, oltre ad aver dato un nuovo significato alla parola “colossale”, ha ispirato molti artisti nei secoli successivi alla sua creazione, come testimonia tra le altre la corona di raggi di luce sulla testa della Statua della Libertà di New York. Non restano testimonianze visive di questa statua colossale purtroppo, e neppure minimi resti archeologici che ci facciano toccare con mano almeno un pezzetto del mito, ma è una bella sensazione trovarsi in questo luogo leggendario.

Dal porto, oltre alla fortezza di San Nicola alla fine del molo, già si vedono gli spalti delle mura medievali turrite e orlate di merli, e prima ancora una serie di edifici pubblici costruiti durante il periodo di controllo italiano dell’isola, negli anni dal 1912 al 1943, che recano tracce evidenti di stili architettonici tipici del tempo, da quello di regime a quello veneziano, fino al Liberty.

Sulla grande piazza di fianco al porto, dalla quale si vedono i mulini bizantini di là dalla baia, troviamo la chiesa più grande che abbiamo visto finora, la Chiesa dell’Annunciazione, con una bella facciata in pietra la cui linearità è spezzata solo da una linea a V rovesciata che passa sopra il portale di’ingresso, e un bel campanile a sezione quadrata con trifore all’ultimo piano, sopra all’orologio.

L’interno è molto ampio e ricchissimo di decorazioni, le tre navate sono separate da arcate posate su colonne in marmo e completamente ricoperte di pitture policrome di grande effetto nelle quali sono rappresentate scene della vita dei santi, mentre nell’icona principale all’inizio della navata centrale è rappresentata proprio la scena dell’Annunciazione, evento al quale la chiesa è dedicata. Non si può arrivare fino all’altare maggiore, l’accesso è chiuso, ma anche dal fondo si percepisce il fascino di questo luogo luminoso e colorato che accoglie e protegge i viaggiatori in arrivo dal mare.


Dalla piazza della chiesa continuiamo verso le mura, attraversando una specie di piccolo parco cittadino che si affaccia proprio sulla parte esterna dei potenti bastioni, da cui si può vedere perfettamente anche il grande fossato che circondava le mura, mai riempito d’acqua ma testimone di attacchi e cannoneggiamenti in diverse occasioni di assedio della cittadella medievale.

Attraversiamo un ponte di pietra e poi l’arco della Porta di Amboise, una porta di accesso sormontata da una torretta di avvistamento, e siamo dentro le mura. La cittadella medievale fu costruita nel XIV secolo dai Cavalieri di San Giovanni che arrivarono qui dopo le battaglie in Terra Santa, diventando i Cavalieri di Rodi fino al momento in cui si trasferirono definitivamente a Malta. Ci ritroviamo in un ingresso ampio e lungo da percorrere verso l’interno della fortezza, e qui notiamo uno strano albero dal tronco irregolare sul quale sono stati dipinti due occhioni che lo fanno assomigliare a un simpatico asinello. Il cortile prosegue fino a sfociare nell’inizio della via principale che porta in centro, già da qui affiancata dagli edifici più antichi della città.

Il primo che incontriamo sulla sinistra è anche il più importante di tutti, il Palazzo del Gran Maestro dei Cavalieri, che decidiamo di visitare subito (6,00€ a testa). All’interno troviamo un magnifico cortile porticato a due livelli, con scale, torri e alcune statue, ma l’elemento più bello è senz’altro la qualità della pietra con la quale il palazzo – composto di più edifici – è costruito, di un meraviglioso color miele sfumato che, nel sole intenso della tarda mattinata, regala un’impressione di solidità e calore insieme. Niente a che vedere con i cupi castelli medievali del nord Europa, né col grigio dal fascino un po’ lugubre delle antiche pietre di Scozia. Questo sembra fatto di biscotto ed è caldo di sole, ma tutto senza perdere un grammo della sua imponenza e austerità.


L’ingresso è ancora più sontuoso di quanto ci si aspetti, con un immenso scalone dal soffitto a volta, altissimo e illuminato in maniera perfetta grazie a un recente restauro che ha saputo valorizzare ogni minima caratteristica di questo luogo dal fascino così particolare. Di fatto, solo porzioni delle torri e delle mura sono ancora originali, il resto è stato ricostruito in seguito a danni causati da esplosioni ed eventi naturali.

I primi saloni ai quali abbiamo accesso sono ugualmente elegantissimi, con pareti in pietra dai colori sfumati e soffitti a cassettoni di legno pregiato, archi e colonne sottili, caminetti decorati, lampadari in ferro battuto lavorati come opere d’arte, statue e arredi preziosi. La luminosità e lo spazio accessibile sono perfettamente armonici e piacevolissimi da indagare.

La cosa più spettacolare in mezzo a tanta raffinata magnificenza sono comunque i pavimenti, sui quali sono stati posati preziosi mosaici policromi di origine romanica ritrovati in alcuni siti archeologici sull’isola di Kos. I soggetti sono i più svariati, meduse, animali marini, decorazioni geometriche e floreali di una bellezza straordinaria, fino a composizioni più complesse raffiguranti bellissimi volti di donne patrizie, guerrieri in lotta con animali feroci e divinità impegnate in diverse occupazioni. Piccoli quadratini di pietra colorata in grado di ricreare mondi interi con una precisione e un fascino straordinari, e con un livello di raffinatezza artistica difficilmente uguagliabile.

Nel cuore del Palazzo troviamo le sale dedicate ai cimeli dei Cavalieri, dove sono esposte divise militari, armi, ritratti, stendardi e onorificenze di vario tipo, oggetti appartenenti a epoche diverse stratificate in un’atmosfera così fuori dal tempo da sembrare irreale.

Il giro, davvero interessante, termina dov’è iniziato, allo scalone d’ingresso decorato da lance e croci, e alla fine della visita siamo di nuovo fuori, sotto il porticato di miele decorato con i simboli della città.

Si è fatta una certa ora, così decidiamo di fermarci a mangiare qualcosa prima di proseguire nella nostra visita della città. Poco più avanti lungo la via ci sono una serie di ristoranti e locali che non aspettano altro che i turisti che passano, c’è solo l’imbarazzo della scelta, così ci infiliamo in uno che ha la terrazza panoramica dove pranzare, per godere di un po’ d’aria fresca e di una vista superba all’ombra del gazebo. Il cameriere è un ragazzo gentilissimo di nome Sebastian che ci consiglia alcuni piatti tipici in buon italiano – qui lo parlano davvero tutti. Io non resisto ad antipastini misti e Moussaka, mentre Luca opta per una enorme insalata colorata di pesce che è una bellezza già solo a guardarla. E’ tutto gustoso, e non è niente male neppure il caffè.

Proprio di fronte al ristorante si trova un altro dei monumenti famosi della città, la Torre dell’Orologio, di epoca ottocentesca e bella fattura. Offre soprattutto un punto di vista ideale sulla città, ma purtroppo non abbiamo il tempo di fare tutto e lasciamo perdere la salita sulla torre per dedicarci all’esplorazione di questo importante quartiere, detto Kollakio, che era quello riservato ai Cavalieri.

Tra gli elementi più rilevanti della storia e dell’architettura di questa cittadella medievale ci sono certamente le imponenti torri fortificate e la moschea rosa di Solimano il Magnifico risalente al 1522 (e purtroppo chiusa), ma il cuore della città vecchia batte indubbiamente nella spettacolare Via dei Cavalieri.

Questa è senz’altro la via più suggestiva dell’isola, e una delle più belle che abbiamo avuto la fortuna di visitare. Una via larga circa 6 metri e lunga oltre 200, dritta come una lancia, in pendenza dal Palazzo del Gran Maestro verso il borgo popolare, lastricata da pietre e fiancheggiata dai palazzi nobiliari degli ordini cavallereschi dei vari paesi. Poiché in quel periodo non solo non esistevano le Nazioni geografiche come le conosciamo oggi ma non era noto neppure il concetto stesso di Nazione, questi edifici erano detti “Alberghi delle Lingue”, un’espressione bellissima e acutamente intuitiva in grado di raggruppare, con un anticipo di secoli, tutti coloro che provenivano da uno stesso territorio e parlavano un idioma comune.

Ogni Albergo porta sulla facciata le decorazioni e le insegne che meglio lo rappresentano, ed esprime già visivamente con la sua imponenza l’importanza dei Cavalieri originari di ciascun paese. Tra gli altri, quello francese e quello italiano sono tra i più degni di nota.


Per tutta la lunghezza della Via dei Cavalieri i palazzi di pietra dorata si susseguono senza soluzione di continuità, imponenti e solenni, eleganti e austeri, un canale color miele lastricato di sassi levigati che l’usura del tempo fa luccicare nel sole intenso. Una passeggiata affascinante in un’antica ruga del passato.

All’uscita dal Kollakio facciamo un giro per il resto della città vecchia, tra porticati, chiese e moschee, purtroppo non visitabili perché tutte chiuse, e raggiungiamo la zona più commerciale del centro dove si concentrano le attività e i negozi dedicati ai turisti.

La strada principale di questa zona è la via Socrates, una bella strada grande sulla quale oltre ai ristoranti si affacciano decine e decine di negozietti di prodotti di artigianato locale che attirano i moltissimi turisti in visita, con i colori vivaci dei tessuti e dei vetri e le fogge più tipiche degli oggetti in ferro battuto.

Una delle zone più belle dove ci capita di passeggiare è comunque il quartiere ebraico, un labirinto di stradine lastricate adornate da piccoli archi, capaci nella loro essenzialità di creare un’atmosfera suggestiva assolutamente unica.

Molti sono gli angoli caratteristici del quartiere ebraico, piazzette, stradine, nicchie di verde nascoste tra palazzi e portoni. Arriviamo piano piano fino alle mura medievali e infine usciamo dal lato delle possenti torri rotonde di una delle porte d’ingresso, che ricollega agli edifici più importanti situati al di fuori dalla cinta muraria.

Percorriamo di nuovo il tratto che fiancheggia la spiaggia cittadina fino alla nostra auto, la oltrepassiamo e in pochi minuti siamo all’estremo nord dell’isola, sulla lingua di terra che si affaccia di fronte alla Turchia, dove i due mari s’incontrano di nuovo, ma in maniera molto più tranquilla di quanto accade a Prassonissi. Su questo triangolo di terra che s’incunea nel mare sottile e acuto come una punta di lancia c’è un prato, e lì sopra un edificio basso e squadrato, che è esattamente il luogo che stavamo cercando, l’Acquario. Più piccolo e più bello di quanto ci aspettassimo, ha un suo fascino particolare messo lì così sull’erba verde con alle spalle solo spazio azzurro, vastità di acqua e di cielo, talmente circondato di luminosità che appare controluce in tutte le inquadrature, comunque provi a spostarmi.

La prima sezione di questa Stazione Idrobiologica è dedicata alla biologia marina, con esempi di habitat nei diversi fondali oceanici del mondo, piante e micro-creature, e molti fossili di crostacei, pesci e tartarughe da poter osservare da vicino.

La parte migliore però viene dopo, quando ci addentriamo nella grotta di roccia all’interno della quale un architetto italiano degli anni 30 ha pensato di creare il percorso di visita di questo acquario così particolare. L’effetto è sicuramente interessante, un ambiente di semioscurità illuminato solo dalla luce cha proviene dai vetri delle vasche, soffitti bassi e pareti di roccia scura con piante rampicanti e finestre a oblò, e un bellissimo pavimento realizzato con la tipica tecnica dei sassi bianchi e neri che formano un sentiero decorato di pesci, alghe e cavallucci marini, per un viaggio davvero piacevole nel mondo degli abissi marini. Le vasche sono delle più svariate dimensioni, dalle piccole teche che si potrebbero tenere in casa, dove splendide stelle rosse e ricci di mare si dividono lo spazio con granchi e minuscoli pesciolini colorati, alla enorme vasca centrale, visibile praticamente da ogni zona del percorso, dove nuotano dentici talmente grandi da sembrare finti, frutto dei racconti del solito pescatore esagerato. Invece sono verissimi, immensi e misteriosi, lì a scivolare nell’acqua silenziosi e lenti, senza mai avvicinarsi troppo tra loro nonostante non si guardino neppure per un momento, ballerini perfetti di una danza segreta ballata su una musica profonda che solo loro sono in grado di ascoltare.

Una delle vasche più belle è quella della manta, illuminata da una pioggia di luce che viene dall’alto e quasi vuota a prima vista, ma mentre sei lì davanti che cerchi di capire cosa devi guardare, ecco che la sabbia si muove leggermente, uno sbuffo di sassolini si solleva appena, e vedi gli occhi, e indovini tutto il corpo semisepolto nel fondale per nascondersi a un nemico che quaggiù non potrà mai arrivare. E’ già bellissima così, acquattata e immobile, attenta, perfettamente integrata nel suo ambiente naturale, ma mentre siamo lì lei decide di farci un regalo insperato. Di colpo le onde di sabbia si fanno più intense, il corpo esce tutto fuori dal fondo, e un momento dopo la manta spicca letteralmente il volo, e in un attimo è già in cima alla vasca, volata verso la luce e l’aria, potente e leggera come un uccello. Elegante, veloce, esatta, ci regala uno spettacolo magnifico che restiamo a guardare incantati.

Spettacolare è anche la vasca delle murene, dove diversi esemplari di queste strane creature se ne stanno aggrovigliati tra loro, infilati in una grossa roccia dai cui fori fuoriescono solo teste e code annodate in un miscuglio inestricabile e inquietante. Tutto appare calmo, finché ad un certo punto, non si sa bene per quale ragione, qualcosa si muove, e di colpo il nodo si scioglie come per magia liberando serpentine di corpi sguscianti che risalgono verso l’alto in una scia di guizzi d’argento.

Ci sono anche vasche più piccole, con pesci tropicali colorati e agili, alghe fluttuanti e alcuni piccoli squali con pinne appuntite dalla linea inconfondibile, che dividono il loro spazio con lucidi granchi blu e razze evanescenti come fantasmi sottomarini.

Tra i pesci più inquietanti ci sono di sicuro gli scorfani, creature che sembrano fatte di roccia viva, perfettamente mimetizzati con l’ambiente, puoi stare un tot lì a guardare chiedendoti cosa diamine c’è in quella vasca a parte l’anfora e quelle piccole alghette senza accorgerti della loro presenza.

Arriviamo in fondo alla nostra passeggiata negli abissi in un tempo che sembra troppo breve per quanto è stato piacevole, tra caverne illuminate dall’alto, fiori fluttuanti e creature misteriose che scivolano in quel mondo di silenzio liquido. L’ultimo incontro speciale lo facciamo con un magnifico polpo, enorme e scuro, che distende i suoi tentacoli prodigiosi sul vetro della vasca in un saluto che assomiglia a un invito.

All’uscita riprendiamo l’auto e partiamo in direzione Lindos, ma un’altra sorpresa ci attende. Per un’indicazione poco chiara sulla cartina, imbocchiamo una strada che, invece che portare verso sud, sale su lungo un monte poco fuori Rodi, finendo in un bosco nel quale è situato l’antico Monastero di Filerimos, con diverse costruzioni religiose risalenti ai tempi dei Cavalieri di Rodi. Purtroppo è già tardi ed è tutto chiuso, ma l’atmosfera è bellissima, l’aria profuma di piante e la luce del tramonto tinge tutto d’oro. Un gruppo di pavoni che girano liberi ci vengono incontro curiosi e vanitosi, per nulla intimoriti dalla nostra presenza. Abbiamo solo dei pezzetti di pane da dargli ma loro sembrano gradire, regalandoci in cambio una mezz’ora di elegante confidenza.

Rientriamo a Lindos sul tardi e decidiamo di cenare a casa, molto stanchi ma contenti di com’è andata questa giornata dedicata alla capitale dell’isola.

Clara

Non si può possedere un gatto, eppure tu per tutti eri mia. Una tua scelta naturalmente, come per tutto il resto. Sei arrivata a casa nostra per una di quelle rare combinazioni di eventi che comportano più conseguenze che spiegazioni plausibili, ma anche se non ti ho portata io, c’è voluto poco per capire che le nostre strade erano destinate a incrociarsi.
I gatti non si possono possedere ma i padroni sì, e a te è bastato pochissimo per avermi.
Subito ho amato i tuoi occhi, immensi, verdissimi, attenti a ogni più piccolo movimento intorno a te, il tuo corpo agile, le zampe un po’ corte con quei piedini bianchi minuscoli, rotondi, perfetti, insospettabilmente capaci di sfoderare artigli affilatissimi, e la tua coda a righe, lunga e preziosa, chiunque abbia osato tentare di toccarla ha imparato all’istante cosa significa “non ci provare”. A mano a mano che crescevi e mettevi da parte la follia dei cuccioli per tirare fuori il tuo carattere adulto, ho imparato a conoscere il tuo modo di fare, dignitoso, regale, altero, completamente libero da qualunque tipo di costrizione esterna che tentasse d’importi quello che non volevi. E l’ho amato profondamente. Lo spettacolo della tua totale indipendenza mi ha incantata, e conquistata. La tua consapevolezza di avere diritto a essere libera di fare tutto ciò che volevi nella maniera che volevi traspariva dal tuo sguardo verde affilato e lucido come una lama, dal linguaggio esatto del tuo corpo, dal silenzio eloquente della tua immobilità.
Dicono che se i gatti potessero parlare, non lo farebbero. E’ la verità, chiunque abbia avuto il privilegio di vivere con un gatto straordinario come te lo sa perfettamente. Eppure noi abbiamo comunicato moltissimo, per 20 anni siamo state sintonizzate sulla stessa frequenza, capaci di comprendere senza bisogno di parole, di sapere senza bisogno di chiedere, di rispettare i limiti reciproci senza doverci mai urtare. E mentre tutti conoscevano la Clara temibile, io vedevo quella buffa, pronta a cogliere ogni occasione di giocare per poi tornare seria senza scomporsi, disposta a sopportare la mia devozione con dignità regale, ricambiandola con la preziosa esclusività di un affetto speciale. Sei stata la Regina della casa, nessuno ne ha mai dubitato, un titolo che ti sei meritata appieno e che hai onorato ogni giorno della tua esistenza regalandoci il privilegio della compagnia di una creatura unica.
E ce lo siamo goduto tutto, io e te, questo tempo lungo e prezioso. Abbiamo condiviso stanze e coperte, carezze e notti, ti ho lasciata dormire pomeriggi interi sui miei libri di scuola, e mi sono fatta rimproverare mille volte per averti passato bocconi del mio cibo. Sono diventata esperta a farti la grotta di piumone, perché l’unica cosa che hai davvero odiato era il freddo, e a non preoccuparmi della pioggia, perché sapevo che non ti saresti mai lasciata bagnare. Hai condiviso con me il mistero dei gatti lasciandoti osservare immobile a fissare una parete vuota, e hai stupito tutti mostrando incredibili doti di cacciatrice nonostante fossi cresciuta in un appartamento. Hai scovato gli angoli migliori della casa per i tuoi pisolini, al fresco del davanzale in estate e attaccata al termosifone in inverno, e non hai mai mendicato il tuo cibo, ti bastava sederti vicino al frigo per dirci che era arrivata l’ora di mangiare.
Ho dormito per anni con la porta socchiusa perché tu potessi entrare e uscire dalla mia stanza a tuo piacimento, e quando poi nella casa nuova hai trovato la porta chiusa, hai imposto ancora la tua volontà imparando ad aprirla per venire da me. Un balzo lievissimo e silenzioso, ed eri sul letto, accovacciata in fondo ai piedi o lungo le gambe, nel punto che più ti piaceva, con gli occhi chiusi e le orecchie attente, per passare la notte accanto a me. Non potrò mai dimenticare il rumore leggero del tuo respiro, con qualche sospiro più profondo mescolato di fusa ogni tanto, e il peso lieve del tuo corpo sulle coperte che mi impediva di muovermi liberamente. Quel piccolo peso che mi bloccava era il peso del tuo amore nei miei confronti, e io non desideravo altro che passare notti scomode e preziose insieme a te.
Ho imparato a sentire la tua presenza anche senza vederti, e a sapere sempre dov’eri anche quando non c’ero. E tu sapevi dov’ero io, sapevi quando era il caso di girare alla larga e quando invece avevo bisogno di sentire vicino un calore amico. Il tuo nome era una delle prime parole che dicevo al telefono ogni volta che ero lontana, le tue abitudini più strane quelle che riuscivo a comprendere meglio.
Altri animali sono passati nella nostra casa, gatti piccoli o adulti, timidi o un po’ matti, e un cane speciale che abbiamo amato moltissimo, ma tu sei sempre stata diversa da tutti – impossibile da paragonare, una presenza a sé, imprescindibile come la colonna portante di un edificio.
Sei stata un punto fermo in anni avari di certezze, una piccola ancora di sicurezza in mezzo a onde a volte lievi a volte enormi. Mi hai insegnato molte cose di me in questi anni, fino alla fine, cose che neanche sospettavo, alcune belle, altre che non avrei mai voluto scoprire.
La tua ultima lezione è la più difficile, però. Devo imparare a stare senza di te. Abituarmi a trovare il giardino vuoto, smettere di cercare il tuo sguardo verde nei tuoi posti preferiti, convincermi che non è la tua voce quella che mi arriva da dietro la porta, né il tuo corpo quello che a volte sembra pesarmi vicino alle gambe. Farò del mio meglio, il tempo mi aiuterà, insieme alla consapevolezza che, se un pezzettino del mio cuore ora è lì con te, tu sarai sempre con me.
Non dimenticherò nulla del nostro tempo insieme, della gioia e del dolore che mi hai regalato, della tristezza e dell’allegria che sono parte della storia delle creature che si amano.
Io che avevo il privilegio di poterlo fare, ti abbraccio stretta, per sempre.
E nella nostra maniera di comunicare fatta soprattutto di gesti e sguardi, riesco a infilare solo un’unica parola, che mi sale direttamente dal cuore. GRAZIE.
So che, anche questa volta, tu mi capirai.