Paolo Giordano, Mondadori 2008
Sospetto sempre dei libri che hanno un clamoroso successo di vendita, ma non capita spesso di avere tra le mani un Premio Strega di 28 anni e non potevo certo lasciarmelo sfuggire. Alla fine mi è piaciuto questo romanzo, mi è piaciuto molto. E’ una storia certamente dura ma, come al solito, a me cosa viene raccontato interessa infinitamente meno di come viene raccontato – e qui ho trovato pane per i miei denti.
La scrittura di Giordano è incredibilmente equilibrata per un autore così giovane, sorprendentemente acuta nell’analisi dei sentimenti più profondi dei due protagonisti ai quali i drammatici eventi avvenuti nell’infanzia sconvolgono tutta la vita a venire.
Una sensibilità finissima percorre tutta la narrazione, che è ricca ma decisamente senza fronzoli, asciutta senza essere fredda. Arriva dritta nel cuore di ciò che descrive, e lo tocca. Una scrittura quasi matematica – esatta, a saperla decifrare.
Il disagio dei personaggi è descritto con tanta precisione in ogni sua piega più segreta che viene da chiedersi come mai un ragazzo così giovane conosca solitudini tanto grandi. Anche il finale mi è piaciuto, niente melassa da romanzo rosa né tragico destino da sceneggiata. Solo lucida presa di coscienza di sé, voglia di ripartire, e consapevolezza delle proprie possibilità. Ci vuole fatica, ma si può fare. Volendo.
Molto buona, per essere un’opera prima. Aspetterò la prossima con curiosità.
La mia scena preferita: Alice che scatta Polaroid di lei e Matteo che indossano gli abiti da sposi dei suoi genitori – una scena raccontata benissimo, che mi ha riportato come d’incanto alla memoria la dolcezza straordinaria di Sylvie.
La frase che ricorderò:
Mattia pensava che lui e Alice erano così, due primi gemelli, soli e perduti, vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero. A lei non l’aveva mai detto.