L'importante non è cosa guardi, ma cosa vedi
 
Cappella degli Scrovegni

Cappella degli Scrovegni

Non è mai troppo tardi, per vedere una cosa bella.Questa è stata l’ultima che ho visto nel 2011, e certo una delle migliori di sempre. Spettacolare. Stupefacente. Un gioiello inestimabile conservato ai bordi di una città tutta rivolta verso la luce del suo Santo, che invece il Miracolo ce l’ha da oltre 700 anni srotolato sui muri di un piccolo scrigno di pietra, poco fuori dal centro storico. Enrico Scrovegni, ricchissimo banchiere del tempo, fece costruire questa cappella come dono alla Vergine in cambio della salvezza dell’anima di suo padre, sistemato da Dante in persona nel girone dell’Inferno riservato agli usurai, e poiché il peccato paterno era tra i più gravi, per tentare di cancellarlo chiamò a decorarla il più grande Maestro dell’epoca, Giotto di Bondone. Se c’era uno che ce la poteva fare, quello era lui. Giotto accettò, e in meno di due anni completò un’opera straordinaria ammirata dai visitatori di tutto il mondo come un Miracolo, un dono capace di trasformare un vecchio usuraio dannato in un benefattore dell’Umanità.

E l’Umanità tutta sfila ancora davanti alle sue pareti colorate, col naso in su e gli occhi spalancati a farsi convertire alla meraviglia da quel prodigio divino. Finalmente è arrivato anche il nostro turno, in questa fila infinita. Raggiungiamo il giardino in cui si trova la Cappella di primo pomeriggio, e resto un po’ sorpresa dal primo impatto con l’esterno dell’edificio. Una chiesotta di mattoni rossi dalla forma rettangolare col tetto leggermente a punta, una specie di scatola tozza con un cornicione di pietra bianca non particolarmente elegante, e una trifora sistemata molto in alto. Non è il contenitore che mi aspettavo, per uno dei più bei gioielli del mondo. Prenotiamo i biglietti per la sessione serale doppia, e si rivelerà la scelta migliore che potessimo fare. Siamo all’entrata una decina di minuti prima dell’orario previsto, l’ingresso è a gruppi di 25 persone per volta a orario fisso e chi ritarda perde il diritto alla visita. Mostriamo i nostri tagliandi e ci fanno entrare nella sala di compensazione, che poi richiude le porte automatiche alle nostre spalle. Si tratta di una speciale sala con pareti di vetro in cui i gruppi di visitatori restano per circa un quarto d’ora prima di avere accesso alla Cappella, per stabilizzare il microclima ed evitare sbalzi di umidità e temperatura che potrebbero danneggiare le pitture. Nei 15 minuti di sosta forzata assistiamo a un documentario sulla storia della conservazione degli affreschi, compreso l’ultimo intervento di restauro completato nel 2002 che ha incluso la creazione di questa speciale camera protettiva. Fuori dal cubo di vetro è buio e fa freddo, le immagini delle scene dipinte scorrono sullo schermo di un grande televisore accompagnate da un commento che mi pare alquanto noioso, ma forse è solo perché ormai siamo vicinissimi alla nostra meta e invece ci trattengono ancora, e io non vedo l’ora di ammirare con i miei occhi l’opera della maturità di uno dei miei Maestri preferiti. Finalmente scorrono i titoli di coda, e la porta a vetri interna si apre silenziosamente per lasciarci accedere al corridoio che conduce all’entrata. Sembra di entrare nel caveau di una banca, o in un luogo segreto riservato a pochi adepti. E’ questione di poco, qualche metro nella semioscurità e raggiungiamo una minuscola porticina, che dà accesso direttamente all’interno. Ci ritroviamo all’altezza del lato sinistro dell’altare, poco più avanti dell’inizio dell’abside, con le pareti della Cappella che si allungano alla nostra destra. Le prime cose che mi colpiscono sono i colori, intensi e vividi, e la dimensione dello spazio che ci accoglie, molto più piccola di quanto mi aspettassi. Pensavo a questa chiesa famosa nel mondo come a qualcosa di grandioso, invece è una semplice Cappella familiare lunga una ventina di metri e larga meno di dieci, a navata unica, con la volta a botte e un’abside stretta e un po’ incassata. Il tempo di assorbire l’impatto, pochi passi lungo la pedana che scende verso il fondo della chiesa, e comincio a realizzare che sono davvero qui, davanti agli affreschi più importanti di Giotto – ci sono in mezzo a dire la verità, circondata da ogni lato da immagini e colori e cielo blu – completamente immersa in questo mondo colorato come un pesciolino liberato in un acquario nuovissimo. E come un pesce, comincio piano piano a vagare, qua e là, ora da un lato delle balaustre ora dall’altro, gli occhi fissi su questi colori e questi volti inimitabili, ipnotizzata e lievemente stordita da tanta sfolgorante bellezza. Trattengo il respiro come in apnea e vago lentamente senza sapere bene dove guardare, in completo silenzio. Familiarizzo con le immagini che ho intorno e piano piano riconosco i quadri dei tre registri sovrapposti di racconti: la storia di Anna e Gioacchino, in alto, la storia di Maria, più sotto, e poi la nascita di Gesù e gli episodi principali della sua vita fino alla Crocifissione e alla Resurrezione. E in fondo a tutto, sulla parete della controfacciata, il grandioso Giudizio Universale, in cui le anime sono definitivamente divise tra salve e dannate. L’idea è semplice ma geniale. Uno spazio ampio suddiviso in tre fasce orizzontali a loro volta ridivise in pannelli quadrati, separate sul lato sud dalle finestre a vetrate della chiesa, su quello nord da corrispondenti elementi geometrici dipinti a cornici e losanghe, a creare un effetto ottico di struttura architettonica che in realtà non c’è. Sotto le fasce dipinte gira uno zoccolo alto in cui i marmi policromi, le nicchie e le statue raffiguranti i Vizi e le Virtù sono affrescati con una precisione tale da ingannare perfettamente l’occhio dello spettatore.

L’altare è decorato da tre meravigliose statue in marmo di Giovanni Pisano, mentre nell’abside stretta situata subito dietro si trovano le tombe di Enrico Scrovegni e sua moglie. Morire deve fare meno paura, a sapere di riposare in eterno in questo Paradiso. In alto, proprio di faccia al Giudizio Universale, si trova la lunetta con Dio Padre, e ai suoi lati, l’Angelo dell’Annunciazione sulla sinistra e la Vergine Maria sulla destra. Sulla volta a botte risplende un cielo azzurro trapunto di stelle, sul quale spiccano 8 medaglioni piccoli e 2 grandi nei quali sono contenuti i Profeti, la Vergine e Gesù Pantocratore.

Una struttura chiusa e completa, un percorso ideale, il viaggio dell’Anima verso la Salvezza eterna. Una bolla di perfezione assoluta, nella quale entrare e perdersi è un attimo.

Una delle caratteristiche più sorprendenti di queste pitture è la loro dimensione, e la distanza ravvicinata alla quale è possibile osservarle. Niente a che vedere con le meraviglie assolute ma altissime della Sistina o del Duomo di Arezzo. Qui i pannelli che raccontano le storie principali si sviluppano lungo pareti che si trovano a pochi metri da chi le osserva e anche i quadri più alti sono perfettamente leggibili in ogni dettaglio, con il risultato di un’impressione di intimità e partecipazione eccezionali. Mi accorgo che più volte torno istintivamente a guardare verso il basso tenendomi alle ringhiere come a verificare dove sto camminando, con l’impressione netta di essere in cima a un’impalcatura che innalza i visitatori all’altezza delle pitture per permetterne una visione più ravvicinata, ed è con una piccola sorpresa che ogni volta riscopro che sto camminando proprio a terra, non c’è nessun palco sospeso, nessun trucco mi solleva all’altezza di queste figure meravigliose – niente oltre alla magia di quest’arte che sa innalzare tutti all’altezza di Dio.

In questo spazio magico, basta sollevare lo sguardo per muoversi in una serie di dipinti in cui i medesimi personaggi passano da un pannello all’altro rimanendo uguali a se stessi ma sempre coinvolti in nuovi eventi, in una sorta di sequenza di fotogrammi che ricordano quelli di un film. Se queste immagini colpiscono così intensamente il nostro occhio di spettatori multimediali del XXI secolo, è difficile anche solo immaginare l’impatto straordinario che possono aver avuto sugli animi di uomini e donne di inizio ‘300 per i quali il cinema non era neppure una possibilità lontanamente concepibile. Fedeli che entravano nella Cappella conoscendo quelle storie fatte solo di parole, e che di colpo se le ritrovavano davanti vere e vivide, intense e commoventi come mai avevano osato rappresentarsele. Una Bibbia in technicolor in cui la Parola si è fatta immagine e il racconto è diventato emozione. Una rivoluzione per l’anima e per il cuore, quando la grandezza di Dio si manifesta con tanto assoluto splendore.

Dopo un primo impatto potente che mi ha un po’ stordita, cerco di trovare il bandolo di questa matassa colorata per cominciare a leggerla seguendo un filo logico, nel tentativo di non perdermi niente di questo spettacolo grandioso. Cerco le scene iniziali, quelle della storia di Anna e Gioacchino, nelle quali è immediatamente evidente l’intento narrativo realistico della descrizione pittorica degli eventi, una delle caratteristiche più preziose dell’Arte di Giotto. Ogni quadro rappresenta una scena che è un momento metaforico ma anche reale della storia, ed è narrato con tutta la simbologia e con tutto il sentimento del caso. Così, il ritorno di Gioacchino, bandito dalla città perché mai benedetto da Dio con un figlio, è ovviamente accolto con grande gioia da sua moglie Anna, alla quale l’Angelo ha finalmente annunciato la prossima maternità, e che lo attende con le altre donne presso la Porta Aurea in una scena descritta in tutta la sua portata simbolica.

Ma guardando quell’immagine si percepisce che c’è più che gioia nell’abbraccio dei due protagonisti che avranno finalmente il figlio desiderato, c’è amore vero e infinito in quel cerchio familiare di braccia e di sguardi segreti che li raccoglie e li taglia fuori da tutto il resto del mondo. E’ un sentimento intenso e forte che colpisce e spiazza per l’onestà pura con la quale è mostrato, e che commuove nella raffigurazione del dettaglio del bacio che i due coniugi si scambiano accarezzandosi i volti, espressione esatta del sentimento che stanno provando. Il primo vero bacio della storia della pittura italiana, rimasto uno dei più belli in assoluto.

Tra le scene della storia di Maria, mi colpisce quella delle sue nozze con Giuseppe. Davanti al tempio e al suo sposo Maria è una fanciulla sottile e bellissima, elegante nel suo abito bianco, ha una coroncina di fiori sui capelli ed è circondata da ragazze sofisticate e partecipi. Quella che Giotto dipinge qui è una comune scena di nozze che si ripete in ogni luogo e in ogni tempo, una ragazza felice nel suo vestito bianco che si sta per sposare. Ma la magia del suo tocco trasforma quelle nozze in un evento unico, e lo fa con una leggerezza che lascia incantati. Perché basta guardare più attentamente per notare il dettaglio della mano sinistra che, proprio nel momento dello scambio degli anelli, Maria tiene appoggiata sul suo ventre, in un gesto di segreta tenerezza che accenna alla rivelazione della grandezza del figlio che nascerà da quel grembo.

Nell’elegantissimo quadro del corteo nuziale che va verso il palazzo gli sposi procedono insieme, Giuseppe avanti e Maria che lo segue da vicino sorreggendo il suo abito con la grazia assoluta di una figurina gotica. Il cielo azzurro e aperto sovrasta la scena regalando un senso di libertà e festa, ma l’emozione più intensa stavolta arriva da un elemento invisibile agli occhi, la musica. Il corteo è accolto da tre suonatori belli come angeli ma rappresentati in maniera assolutamente realistica, con le gote gonfie e l’espressione concentrata dei volti mentre suonano i loro strumenti. La rigidità distaccata delle rappresentazioni medievali si scioglie nella morbidezza di queste linee quasi rinascimentali.

Anche una delle scene più classiche, la Natività, è illustrata con maestria assoluta. Maria è bellissima, distesa nel suo giaciglio e coperta dal mantello blu, pettinata con un’acconciatura raffinata che le lascia scoperto il volto, mentre si china a prendere tra le braccia quel Bambino disteso nella mangiatoia che salverà il mondo con il suo sacrificio. In questo momento però lui è solo il suo bambino e lei lo guarda come ogni madre guarda il proprio figlio, mentre anche lui tiene gli occhi fissi in quelli della madre in un dialogo muto ed esclusivo che resta riservato solo a loro due. Due profili agganciati in un unico sguardo a tagliare fuori tutto il resto del mondo, presente e futuro.

Nell’adorazione dei Magi l’elemento realistico e quello emotivo si fondono in maniera ancora più netta. Qui, insieme ai Re venuti a inginocchiarsi davanti al Bambino, Giotto raffigura nel cielo sopra alla capanna una grande stella d’oro dalla coda splendente. Si tratta nientemeno che della cometa di Halley, che lui stesso aveva osservato brillare in cielo nel 1301 e che al tempo era ritenuta proprio la cometa seguita dai Re Magi fino a Betlemme la notte dell’Epifania. La stessa stella che anche noi abbiamo visto passare con uguale stupore sulle nostre teste nel 1986, e la medesima che compare ricamata nell’arazzo di Bayeux, nel quale si celebrava la vittoria sull’Inghilterra da parte di Guglielmo il Conquistatore nel 1066. Una scia di luce che corre da sempre nel cerchio infinito del cielo, unendo in un’unica linea di meraviglia secoli di occhi sollevati a guardarla.

Dopo tante scene di pace si incontra una rappresentazione che appare subito altamente drammatica, quella della strage degli Innocenti ordinata da Erode nel tentativo di uccidere Gesù. Il re della Giudea, innalzato su una tribuna simbolo del suo alto potere, ordina ai suoi uomini di uccidere tutti i bambini del popolo, e questi eseguono l’ordine senza esitazione. Unica forza contrapposta alla loro ferocia, l’amore delle madri che si oppongono disperatamente a tanta violenza, pronte a fare scudo con i propri corpi ai figli indifesi e a invocare pietà per quegli innocenti.

L’azione è drammatica, molti corpi di piccoli uccisi giacciono già a terra – ancora bellissimi nella loro purezza – e altri stanno per essere orribilmente massacrati, in un quadro in cui le due fazioni del potere politico e delle ragioni umane si fronteggiano in maniera inconciliabile. Ma anche qui, al di là dell’equilibrio perfetto dei volumi e dei colori, e dei personaggi rappresentati di spalle e di fronte che bilanciano con esattezza la raffigurazione di un dramma così intenso, è nel dettaglio che risplendono la grandezza umana di Giotto e la sua capacità di rendere universale un evento particolare. Le sue madri sono un gruppo unito, compatto, animato da un unico desiderio di protezione. Sono giovani donne disperate, spaventate, scarmigliate, non hanno armi se non quella dell’amore per i loro figli ma sono disposte a tutto per salvarli, anche a cercare di strapparli via a forza dalle mani dei loro carnefici. I profili dei loro volti solcati dalle lacrime, le espressioni angosciate, le bocche aperte in grida di strazio e pietà riescono a emozionare più di qualunque gesto, e a coinvolgere i cuori di ogni tempo.

Stiamo ancora ammirando la bellezza drammatica di questa scena quando sentiamo, come da lontano, il trillo acuto e ripetuto di un segnale acustico che risuona nell’aria. Il tempo di vedere la signora che ci ha fatti entrare radunare le persone presenti, e comprendiamo che i 15 minuti concessi sono trascorsi, è finito il turno di visita di questo gruppo. Uscire adesso? Di già? Impensabile. Un attimo di panico ci blocca, poi tiriamo fuori i nostri tagliandi validi per il doppio turno – benedicendo il momento in cui abbiamo optato per questa scelta – e li mostriamo risoluti, e lei non può che confermare il nostro diritto a rimanere ancora. Sollevati, torniamo al nostro posto, e pochi momenti dopo questo luogo magico ci regala un’emozione del tutto inattesa. La signora si è portata via il nostro gruppo – tutto – ed è andata ad accogliere il successivo, e intanto noi restiamo dentro la Cappella da soli. Improvvisamente, siamo io e Luca soli in mezzo a tutta questa meraviglia – beneficiari esclusivi di tanta straordinaria bellezza – un privilegio assoluto che ci regala un’emozione intensa. Le luci sono accese, un silenzio antico riempie lo spazio fino in cima alla volta, i colori e i volumi delle figure di Giotto si srotolano sulle pareti intorno a noi in un film che ci circonda come un cerchio magico mentre siamo qui da soli, spettatori unici di tanta potente meraviglia. Per una manciata di minuti diventiamo i padroni di questo spazio incantato, e ne raccogliamo tutta l’energia. Non deve capitare a molti, di poter vivere momenti così preziosi. Dura solo il tempo che serve alla signora per andare ad accogliere il nuovo gruppo di visitatori e accompagnarlo nella Cappella, ma nel mio ricordo resteranno minuti indimenticabili.

Mentre i visitatori del nuovo gruppo si lasciano stupire dall’impatto con i colori e le forme che li accolgono, noi riprendiamo il nostro viaggio nel film di Giotto dalla scena del Battesimo. Gesù è raffigurato con grande realismo, già immerso nel Giordano che scorre tra due alte quinte di roccia, l’acqua è così trasparente da lasciar intravedere l’incarnato chiaro del suo corpo e perfino un pesce argentato che nuota vicino alle sue gambe. Uno dei meravigliosi piccoli dettagli di Giotto, nei quali poesia e ingenuità si fondono in maniera unica e assolutamente commovente. Qui, circondato da una serie di figure scandite da un’alternanza di panneggi colorati accostati con perfetta armonia, Gesù riceve il Battesimo da Giovanni di fronte ai suoi discepoli. In quel momento la luce divina squarcia l’azzurro di lapislazzuli del cielo e la benedizione di Dio Padre discende sul capo del figlio, in una linea verticale originale che unisce direttamente il cielo e la terra, perfetta metafora del potere del battesimo di permettere alle anime l’accesso al regno dei cieli.

Vivissimo e reale è anche il Gesù che, infuriato, scaccia i mercanti dal tempio. Di fronte alla raffinata architettura della casa di Dio, un Gesù insolitamente agitato alza il braccio e mostra il pugno verso i mercanti che profanano quel luogo sacro con commerci indegni. Quel gesto, e l’intensità con la quale è compiuto, che causa il rovesciamento del tavolo e la fuga di alcuni animali spaventati, impressiona i mercanti e lascia stupiti persino i suoi stessi discepoli, che non si aspettavano quella furia. Giotto racconta questa sorpresa con la sua inconfondibile leggerezza nella figura del bambino che stringe a sé la colomba in un gesto di protezione, e in quella di Giovanni che nasconde un altro piccolo spaventato sotto al suo mantello. Questa non è mera rappresentazione fine a se stessa, questo Gesù è di carne e sangue come gli uomini e vive le loro stesse emozioni.

Una delle scene più classiche della narrazione della vita di Gesù, l’Ultima cena, sorprende per l’incredibile qualità compositiva raggiunta da Giotto. Sotto un loggiato di architettura delicata, ritratti come visti attraverso una parete di vetro in uno scorcio di prospettiva completamente nuovo, i 12 apostoli siedono a cena, alcuni di fronte altri completamente di spalle allo spettatore, che ne intuisce i corpi dai volumi dei panneggi degli abiti. Gesù, a capo tavola, ha annunciato che uno di loro lo tradirà, e lo sconcerto e la sorpresa gelano quell’istante drammatico sui volti e nei gesti dei presenti, che si guardano increduli. Le parole gravi di Gesù sono sospese nell’aria, tutto si è fermato di fronte a questa terribile rivelazione. Movimento catalizzatore di tutte le emozioni del momento è quello di Giovanni, che ha posato il capo sulla spalla del suo Maestro chiudendo gli occhi come per rifiutarsi di vedere la verità annunciata dalle parole appena ascoltate. Gesù, immobile e silenzioso, tiene in mano il boccone da porgere a colui che il suo gesto indicherà come il traditore, Giuda, che è seduto di spalle lì accanto. Non l’azione ma l’emozione, ancora una volta, gioca il ruolo principale nell’illustrazione di questo episodio.

Colori magnifici e grande agitazione sono di nuovo protagonisti nel quadro della Cattura di Cristo. I soldati riconoscono Gesù grazie al bacio di Giuda che ne rivela l’identità, e si scatena lo scontro. Lance, torce, braccia si incrociano e si oppongono in un’azione concitata e confusa. C’è chi brandisce armi, chi suona il corno, chi spinge o strattona il nemico per il mantello. Pietro, a sorpresa, sfodera addirittura un pugnale per colpire un soldato all’orecchio, mentre un altro discepolo cerca di riportare un po’ d’ordine in quel caos agitato. Ma tutto avviene ai lati della scena. I due protagonisti al centro degli eventi rimangono immobili, fissati in un abbraccio rivelatore e definitivo. Non c’è più niente che si possa fare per impedire al destino di andare come deve andare, l’agitazione caotica che c’è intorno non serve ad altro che a sottolineare questa verità incontrovertibile.

Poco più avanti arriviamo a uno dei quadri centrali della storia di Gesù, la Crocifissione. La composizione è piuttosto classica, la Croce di legno al centro, i discepoli raccolti in gruppo a destra, le donne a sorreggere Maria piegata dal dolore a sinistra, la Maddalena in ginocchio ai piedi di Gesù crocifisso. A prima vista sembra una scena abbastanza nota e riconducibile a una tradizione conosciuta, e in qualche modo familiare. Ma basta restare lì davanti un po’ più a lungo per cominciare a rilevare dettagli rivelatori della sua originalità, e percepire che in quell’immagine c’è qualcosa di nuovo e intenso, un’emozione pulsante che emerge piano piano e arriva inesorabile a toccare il cuore. Giovanni e il gruppo delle donne confortano la madre di Gesù con tenerezza, tutti gli sguardi sono rivolti a lei e non alla Croce. Il loro sostegno è fisico oltre che morale, la sorreggono e le stringono le braccia in un contatto umano che trasmette vicinanza. Maria, con una veste azzurra come il cielo che la sovrasta, si lascia andare al dolore senza più forza, le mani abbandonate lungo il corpo, il capo chino come quello del figlio, gli occhi chiusi come quelli di lui. E’ un’icona totale della sofferenza. Ma la sensibilità di Giotto ha saputo fare di più, aggiungendo un dettaglio capace di caricare la scena di ulteriore emozione. Maria è raffigurata con il capo scoperto, non porta nessun velo, il che è insolito per l’epoca. Il suo velo è presente sulla scena in realtà, è il sottile velo bianco che cinge i fianchi di Gesù, passato dalla madre al figlio per proteggerlo almeno in parte dal pubblico oltraggio al quale è stato condannato dai suoi aguzzini. Un gesto piccolissimo in un momento dominato dalla morte, eppure un gesto di amore immenso, di cui una madre sa essere capace.

I personaggi laterali sono presenze moderatamente composte di fronte al destino che si è ormai compiuto, silenziosi o appena bisbiglianti, ma ce n’è uno che invece non sembra riuscire ad accettare veramente ciò che è accaduto. E’ la Maddalena, inginocchiata accanto alla Croce, bellissima con i lunghi capelli sciolti sulle spalle, il profilo che rivela le lacrime che le rigano il volto, e la schiena curva sotto il peso del dolore. In questo momento di strazio per tutti lei è l’unica capace di compiere un gesto di dolcezza assoluta accarezzando i piedi di Gesù ormai morto, come a voler toccare un’ultima volta qualcuno che era vivo e amato e che non si può accettare di dover lasciare andare via, per sentirlo ancora, e farsi sentire ancora una volta. Chiunque abbia dovuto affrontare un simile dolore sa riconoscere quel gesto all’istante, e sentirlo suo.

Il corpo di Gesù è candido, delicato, eppure più che pallido è luminoso – come fatto d’aria e di luce – come se la morte non avesse potere reale su quella carne. Ma soprattutto, risplende sullo sfondo di un cielo di lapislazzuli azzurrissimi, di un blu intenso e profondo, un cielo infinito che invade ogni centimetro di spazio libero. E in questo meraviglioso azzurro, vola il più incredibile cerchio di angeli che sia dato incontrare. Piccoli angeli che ruotano intorno a Gesù agitati come falene impazzite intorno alla luce – uno si straccia le vesti, un altro spalanca le braccia disperato, altri piangono, mentre in tre raccolgono nelle coppe il sangue che cola dalle sue ferite. Ogni angelo è raffigurato in una diversa posizione, di fronte, di profilo, dall’alto, ma tutti hanno l’orlo della veste colorata che sfuma nel nulla, a indicare la velocità e la disperazione di quel volo di creature rese folli dal dolore per la tragedia appena compiutasi. Una rappresentazione originalissima e potente, che avrà lasciato senza parole i fedeli che la videro per la prima volta 700 anni fa esattamente come lascia ammutoliti noi oggi.

La sequenza successiva è una delle più emozionanti, il Compianto sul corpo di Cristo. Il corpo di Gesù ormai morto è stato staccato dalla Croce e disteso a terra, la madre e i discepoli possono sistemarlo e salutarlo prima di portarlo al sepolcro. La composizione è assolutamente magnifica nella sua costruzione, certo una tra le più belle di tutto il ciclo pittorico. Maria, inginocchiata, tiene tra le braccia il corpo del figlio nella rappresentazione classica della Pietà e lo accarezza teneramente, il suo volto è vicino a quello di Cristo ed entrambi sono trasfigurati dalla sofferenza. Ma non si tratta di un dolore privato, stavolta. Questi due volti sono il centro focale di un’onda di dolore che da loro si propaga a tutti i presenti, a tutti i cristiani, e a tutti gli uomini. Intorno alla Pietà ci sono le pie donne che con Maria rendono omaggio al corpo di Gesù, e Giotto non avrebbe potuto rappresentarle con maggiore carica emotiva. Sono sistemate tutte a terra, inginocchiate o sedute alla solita altezza di Maria, e sono raffigurate di profilo o di spalle, straordinari volumi di colore perfettamente armonici. Una sostiene dolcemente la testa di Cristo, altre due gli tengono le mani, la Maddalena gli accarezza i piedi martoriati dalle ferite dei chiodi, in un anello di dolore che si espande con la sua massima intensità al livello del suolo.

In un cerchio lievemente più elevato si incontrano altre donne che piangono con gli sguardi rivolti verso il basso, e soprattutto si trova Giovanni, curvo verso il corpo esanime di Gesù, con le braccia spalancate in un gesto che è netto e straziante come un grido. In un cerchio ancora più esterno altri discepoli partecipano al compianto col capo chino, ammutoliti e impotenti di fronte a ciò che è accaduto, mentre tutti gli sguardi restano sempre rivolti verso il centro emotivo della scena.

Infine, un’ultima, meravigliosa spirale di dolore si allarga nel cielo. Un cerchio di angeli affranti sorvola la scena, i volti piangenti, i gesti disperati, gli orli colorati delle vesti svolazzanti che sfumano nell’azzurro del cielo. Un girotondo di dolore che sembra riflettere e allargare in una spirale infinita quello terreno nel quale ha origine, a propagare nei cieli del Padre l’eco dello strazio per la morte del Figlio.

Ma la meraviglia non è ancora finita. Basta spostare lo sguardo di pochi metri per trovarsi di fronte a uno dei quadri più emozionanti dell’intero ciclo, che è anche il mio preferito, la Resurrezione di Cristo. La Maddalena, recatasi al sepolcro a visitare Gesù, trova solo i soldati addormentati, mentre due angeli le indicano un uomo che si sta allontanando. E’ il Cristo risorto, che le rivolge il suo “Noli me tangere” portando con sé il vessillo sul quale si legge “Victor mortis”.

La scena è essenziale, e bellissima. Sul sepolcro aperto gli angeli siedono tranquilli indicando il Risorto che si allontana nella sua veste candida, i soldati dormono appoggiati contro il marmo rosato della tomba in una posizione di abbandono, con le teste reclinate all’indietro e i volti sereni, completamente ignari di ciò che è accaduto. La bellezza dei volti dei soldati è stupefacente, assolutamente formidabile. La posizione, la morbidezza, le ombreggiature delicate della pelle contro il rosa marmorizzato dello sfondo fanno di queste figure personaggi descritti con un livello di perfezione che sarà raramente raggiunto anche nei secoli successivi. Li guardo e mi viene in mente la Resurrezione di Piero, una di quelle immagini alle quali ricorro ogni volta che ho bisogno di infilarmi dentro a qualcosa di veramente bello. Con mia stessa sorpresa, mi ritrovo a dover ammettere che questi soldati sono splendidi almeno quanto di quelli di Sansepolcro. E io lo adoro, quell’affresco. Risolvo la questione a modo mio, convincendomi che un giorno anche Piero è stato qui, in piedi in questo stesso corridoio dove stiamo noi adesso, con lo sguardo in su a seguire il percorso delle linee miracolose che abbiamo davanti, e a lasciarsene modellare gli occhi e l’anima. Così un giorno, quando ha avuto bisogno di dipingere la sua Resurrezione, non gli è stato difficile ritrovare nel suo animo l’impronta dell’emozione vissuta qui, per creare quello che è stato definito “il più bel dipinto del mondo”.

Magnifica quanto tutto il resto in questa scena, è la Maddalena che, inginocchiata, si trova di colpo di fronte all’impossibile: il morto che era andata a trovare è vivo, e cammina davanti a lei. Lo stupore spalanca i suoi occhi, mentre le sue mani si allungano a cercare una conferma tangibile di ciò che sta vedendo. Perché a volte si ha proprio bisogno di toccarlo, quello che ci pare troppo bello per essere vero. Lei non è che un mantello rosso cui il drappeggio conferisce volume, e dal quale escono solo il volto pallido e le braccia tese, le mani cieche allungate a toccare la verità folgorante del miracolo.

L’ultima scena della narrazione è anche la più grandiosa, il Giudizio Universale, che occupa l’intera superficie della controfacciata e che conclude il viaggio di chi entra in questa scatola magica. La costruzione è geometrica, e a modo suo perfetta. Al centro della scena, un grande Cristo in mandorla circondato da schiere di angeli e santi decide il destino finale delle anime indicando con il palmo delle mani rivolto verso l’alto o verso il basso se la via sarà quella del paradiso o dell’inferno. Ma se il paradiso è rappresentato in maniera abbastanza classica, con angeli in volo e armonie di luce, la visione dell’inferno è più originale. Da un lato dei piedi di Cristo nascono fiumi di fuoco che trascinano via i peccatori colpevoli dei tre vizi capitali, Avarizia, Lussuria e Superbia, portandoli fino al centro più oscuro dell’inferno dove un Satana terribile fa scempio delle loro anime. Sotto al Cristo una croce suddivide visivamente lo spazio tra Bene e Male, simbolo di scelta per tutti gli Uomini. Ai piedi della Croce c’è la scena della dedicazione, nella quale Enrico Scrovegni in persona porge a Maria un modellino della Cappella fatta costruire in suo onore. La scena del Giudizio è lineare ma nient’affatto piatta né statica, tutti sono rivolti verso il cerchio di luce iridata nel quale siede Gesù e tutto pare in qualche modo ruotare intorno a lui, e avere in lui il proprio centro focale.

L’impressione è che l’intento principale non sia semplicemente minacciare i fedeli di un’eternità di orrori e dolore se si allontanano dalla retta via. Il Cristo che giudica qui è calmo, si limita a manifestare la sua decisione con un semplice gesto della mano – tutta la scena dice solo “a voi la scelta”. Molte più aureole che demoni qui, e una grande ricerca dell’ordine e dell’armonia come alternativa al caos. Un Giudizio che divide chirurgicamente le anime in due gruppi distinti, dove la Croce è il bisturi e il pernio di tutto, e il verdetto finale è il risultato scientifico di un’equazione primaria: Giustizia sarà fatta. Fa venire quasi voglia di crederci, a vederla messa così.

Rimaniamo immersi nelle sequenze di quadri della Cappella finché il trillo acuto del segnale di fine turno annuncia che il nostro tempo è finito – per davvero, questa volta. Ma è stato un buon tempo, uno dei migliori dell’anno. Un’esperienza indimenticabile, questo viaggio dentro a un racconto che ci ha parlato con parole speciali. Perché Giotto, Maestro di volumi e geometrie, di composizioni e prospettive come nessuno era mai stato prima di lui (e pochi, dopo), trova la sua grandezza unica non nelle forme ma nei contenuti, non nella tecnica ma nel gesto, non nella complessità ma nella linea semplice che, da sola, racconta un mondo intero. Così il profilo di un volto, la linea di una mano, la curva di un capo reclinato o l’intensità della sfumatura di un panneggio raccontano più di qualunque parola, riuscendo a trasmettere l’emozione totale della narrazione. Un dono raro, privilegio di pochissimi grandi. Usciamo arricchiti da questa visita, che con mia sorpresa si è rivelata perfino superiore alle aspettative. Chi potrebbe dire la stupefacente meraviglia racchiusa in questo luogo, vedendo da fuori questa grossa scatola di mattoni un po’ tozza.

2 commenti

  1. E’ stupefacente conoscere la storia di un così importante dipinto scrivendo semplicemente tre parole: ” Giotto, battesimo di Gesù”.
    Mi è particolarmente piaciuta la presentazione che mi ha partecipato le emozioni della visitatrice.
    Ma Piero è Pier della Francesca?

  2. Ciao Francesca, grazie molte per il tuo commento e per le tue parole così gentili.
    Mi fa molto piacere sapere che il racconto della mia visita a questo gioiello dell’Arte italiana ti ha regalato delle belle emozioni.
    Spero che potrai vedere questa Cappella meravigliosa con i tuoi occhi, per capire davvero di cosa è stato capace il talento straordinario di Giotto.
    E….sì, Piero è proprio Pier della Francesca…. :o)
    Un saluto!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *