Il mondo di Sally

L'importante non è cosa guardi, ma cosa vedi
 
Il mondo di Sally

Venerdì 6 agosto 2016: Anglesey sea zoo – Llanfair – Plas Newydd – Holyhead

Ed ecco confermato che anche in Galles, come nel resto del Regno Unito, non si usano le tapparelle. La giornata è soleggiata e la camera è piena di luce già alle 6 del mattino. Vabbè, vuol dire che il tempo è buono oggi, e possiamo andare in giro senza rischi di pioggia. Facciamo colazione da Phil, la nostra prima Full English che si rivela ottima e abbondante, poi salutiamo e partiamo in direzione Anglesey, a una quarantina di chilometri da Llandudno. Dobbiamo cominciare a familiarizzare con le indicazioni scritte in doppia lingua, e subito appare ovvio che il gallese è estremamente difficile… ma dove hanno lasciato tutte le vocali..?

Anglesey in effetti è un’isola situata all’estremità nord occidentale del Galles alla quale si accede tramite un ponte stradale in pietra che attraversa lo stretto di Menai, una striscia di terra già conosciuta dai romani che arrivarono qui nel I secolo dopo Cristo. Un’invasione che probabilmente per loro fu una roba da ridere, la terra di fronte è proprio lì davanti, se allunghi la mano la puoi quasi toccare per quanto è vicina. L’isola dell’isola, sempre quel quid di meraviglia in più.

Andiamo a vedere un Acquario, un sea zoo molto famoso in questa zona, anche se naturalmente non può essere molto grande, visto dove siamo. Luca profetizza che qui avranno si e no tre pesci rossi nella boccia, ma invece poi ci divertiamo molto a fare il giro delle vasche e a fotografare numerosi esemplari di pesci e crostacei tra i più disparati.

Aragoste enormi, granchi, sogliole, calamari, razze, anemoni, stelle marine, cernie, c’è molta varietà per essere un sea zoo così piccolo.

Gli incontri più belli sono due per noi: le meduse, fantasmi trasparenti che vagano nella vasca scura come nebbiolina che emerge dallo spazio profondo.

Gli ippocampi, millenari cavalieri alieni chiusi dentro alla loro armatura appuntita, che riposano il riposo del guerriero con le code avvinghiate a fili sottili di alghe, per non essere trascinati via dal movimento dell’acqua. Spettacolari.

Una bella vasca grande comprende un meccanismo che riproduce il movimento e il suono inconfondibile delle onde che si infrangono eterne sugli scogli, con un effetto di spruzzi, schiuma e profumo di salsedine molto efficace.

In fondo al giro, prima dello shop e del bagno più divertente incontrato finora, troviamo le nursery dove vengono cresciuti i piccoli delle varie specie presenti, una vasca con le razze e, appesa sopra alla vasca, la riproduzione in cartapesta di un enorme esemplare di squalo con la bocca spalancata, così grande da farci agghiacciare di paura anche a essere fuori dall’acqua. Spielberg ci ha rovinati tutti per sempre, ormai…

Dopo aver lasciato l’acquario ci spostiamo in un pesino a pochi chilometri di distanza, che in effetti non avrebbe nulla di particolarmente attraente di per se’ se non fosse per il suo nome. Questo infatti è universalmente riconosciuto come il paese con il nome più lungo d’Europa e il secondo più lungo al mondo, dopo quello di un posto sperduto nella lontanissima Nuova Zelanda .del mondo di sotto E’ anche il più impronunciabile direi, non solo per la sua sconsiderata lunghezza ma anche per la sua composizione fonetica. Comunque, già al secondo giorno qui abbiamo capito che il Gallese è una lingua complicatissima in cui sembra che a un certo punto abbiamo perso le vocali da qualche parte e siano stati costretti ad arrangiarsi mettendo insieme le parole usando più consonanti possibile, con risultati non difficili da immaginare. Per ora ho imparato solo una parola: ARAF, cioè slow-rallentare, che sta scritta sulla strada prima di ogni incrocio o di ogni rotonda. Parecchie volte, quindi. E poi naturalmente Cymru [‘kәm.ri], che significa Galles.
Il paese col nome impronunciabile è detto Llanfairpwllgwyngyll per praticità, e già questo la dice lunga sull’idea gallese di semplificazione. Comunque il luogo è carino, e l’edificio della stazione con il nome infinito scritto sul muro ci regala una foto divertente e particolare da riportare a casa.

Facciamo un giro in un grande mall proprio lì nella piazza e poi ripartiamo per l’altra meta di oggi, Plas Newydd (New Hall in gallese), a 5 minuti di auto. Il palazzo in questione è un bene gestito dal National Trust per cui abbiamo diritto all’ingresso gratuito grazie alla tessera del FAI, anche se di fatto la signorina alla cassa non ne sa nulla né sa dove cercare per verificare che le cose stiano effettivamente così, quindi si fida semplicemente della nostra parola. Dice che non le capitano molti italiani in visita e tanto meno tessere come la nostra ma non vede perché dovremmo dirle una cosa falsa, e alla fine entriamo free in buona fede, molto contenti della fiducia che ci dimostra.

Questa casa era la residenza dei Marchesi di Anglesey, ceduta al NT nel 1976, ed è una magione molto bella e raffinata del XV secolo catalogata a livello 1 nel registro dei beni storici e culturali britannici, immersa in un parco enorme posato sul bordo del mare.

Dopo aver attraversato una parte di giardino arriviamo all’ingresso del palazzo, aperto al pubblico, e mentre stiamo per entrare siamo testimoni di un piccolo incidente. Il signore davanti a noi sta spingendo la moglie su una sedia a rotelle su per la rampa di ingresso messa per ovviare ai gradini, ma siccome la rampa è particolarmente stretta e la signora sulla sedia è piuttosto robusta, nel momento in cui una ruota esce dalla guida della rampa, la sedia si ribalta all’indietro e lui non ce la fa a reggerla, finendo per farla cappottare con un botto che spaventa tutti. Accorrono subito un addetto della casa e un signore che era lì in visita, e anche Luca naturalmente, e tutti insieme con un po’ di fatica ritirano su la sedia e la riportano sul terreno pari, fuori dalla trappola della rampa troppo stretta. La signora è un po’ spaventata povera donna, ma neanche troppo tutto considerato, e comunque non si è fatta nulla, per cui tutti insieme riprovano a spingerla e alla fine riescono a farla salire oltre ai gradini e dentro l’ingresso della villa, nella soddisfazione generale. Meno male che è finita bene, e la signora ha dimostrato un vero aplomb britannico!

La casa è molto elegante, ancora perfettamente ammobiliata e piena di ritratti e oggetti appartenuti ai marchesi Anglesey. Attraversiamo camere da letto riccamente decorate e complete di bagno attrezzato, guardaroba e caminetto, salotti con morbidi divani e preziose porcellane sparse in giro, e un grande studio con una bella libreria a parete e una scrivania enorme ricoperta di carte, volumi, appunti e fotografie di ogni tipo. La sala da musica è elegante e accogliente, con tanto di pianoforte e grammofono a puntina, e su una parete troviamo un’opera molto particolare che è anche il quadro inglese più grande ancora esistente, dipinto da Whister, che era spesso ospite dei suoi amici marchesi, verso la fine degli anni ’30. E’ una veduta a trompe-l’oeil del parco della villa con le montagne della Snowdonia in lontananza, ville e chiese in stile romantico ottocentesco, e un grande porto che si affaccia sullo stretto di Menai, molto caratteristico.

Un signore che fa da guida nella casa racconta che Henry William Paget, proprietario dell’antica dimora, prese parte alla campagna napoleonica come stretto collaboratore nientemeno che del Duca di Wellington dimostrandosi un valoroso comandante di cavalleria durante la battaglia di Waterloo . Fu proprio il suo eroismo a valergli il titolo di Primo Marchese di Alglesey. Purtroppo però, durante gli scontri sul campo Paget fu colpito da una palla di cannone e perse una gamba, mentre suo fratello – sempre in quella battaglia – perse un braccio, tanto che poi entrambi erano soliti dire che Napoleone era costato alla loro famiglia “an arm and a leg”, da cui forse l’origine di questo tipico modo di dire inglese. La cosa interessante è che in seguito il Marchese si rifiutò assolutamente di andare in giro con una gamba di legno rigida che lo avrebbe fatto zoppicare malamente, per cui si fece costruire, primo al mondo, una protesi in legno con le articolazioni mobili al ginocchio, alla caviglia e all’alluce, riuscendo così a camminare quasi normalmente e divenendo un vero pioniere della medicina prostetica. La notizia di questo suo successo medico si sparse in fretta e, dopo di lui, tutti coloro che potevano permetterselo si fecero fare una protesi simile, che rimase la miglior soluzione disponibile fino a dopo la seconda guerra mondiale, quando la medicina fece passi avanti sufficienti per riuscire a offrire di meglio alle persone colpite da questo tipo di invalidità. C’è una bella mostra napoleonica nella villa, con ritratti, documenti, divise, armi e oggetti originali d’epoca, e tra questi – inaspettata reliquia profana – c’è anche la famosa prima protesi in legno e viti metalliche in bella mostra in una teca, insieme ad alcuni abiti e oggetti appartenuti al marchese. Insolitamente originale, e di sicuro interesse storico.

Il parco intorno alla villa è molto grande e bellissimo, ci sono piante di ortensie enormi e alberi centenari, una casa di legno sull’albero di dimensioni sorprenti e una terrazza fiorita che straborda di fiori colorati, veramente spettacolare.

C’è persino una zona riservata agli scoiattoli rossi, creaturine incantevoli che riesco a fotografare mentre raccolgono i semi da una piccola mangiatoia appesa a un albero.

Siamo stanchi quando raggiungiamo la tea room per un meritato spuntino. Prendiamo un Cream Tea completo di scones, clotted cream e marmellata, e ce lo gustiamo con calma prima di finire il giro del parco.

Quando usciamo, dopo la visita ai giardini, alle pecore e al percorso di sopravvivenze che Luca si diverte a provare mentre io scatto foto in giro, il cielo si è ulteriormente scurito e minaccia pioggia.

Ripartiamo verso nord-ovest e dopo neanche mezz’ora attraversiamo un altro ponte che ci porta in una situazione ancora più strana: siamo sull’isola dell’isola dell’isola, a Holyhead, una mini isoletta di fronte ad Anglesey. Il b&b di stasera è grande e pulitissimo, vicino al mare, con getori molto accoglienti.

Siamo stanchi e si è raffrescato, per cui lasciamo le nostre cose e andiamo subito a cercare qualcosa da mangiare nei dintorni della casa per rientrare in fretta. Il locale che avevo scelto su internet non ha posto purtroppo, quindi riprendiamo la macchina e andiamo verso il centro del paese, e troviamo subito un pub tipico che ci piace molto, il Kings of Arms. L’uomo che lo gestisce è un rappresentante tipico dei proprietari di pub inglesi, tranquillo ma con la battuta pronta, e i suoi avventori non sono da meno. Parlare con loro è come stare in una sit com, un’esperienza assolutamente divertente. Una volta accertato che oltre alla birra locale ci daranno anche da mangiare (fish and chips, of course), ci sediamo e ci godiamo l’ospitalità gallese, che è davvero eccellente.

Rientriamo mentre la pioggia comincia a sbrizzolare, il che non è incoraggiante. Speriamo che smetta, perché domani dovremmo fare un’escursione e ci serve un bel tempo. L’uomo del pub ha promesso che sarà bella, e noi ci vogliamo credere.

Giovedì 5 agosto 2016: Conwy Castle – Smallest House in Great Britain – Bodnant Garden

Ok – eccoci di nuovo qua, legati al sedile di un marchingegno volante e pronti al decollo, con tanta stanchezza addosso e un cumulo di sonno arretrato, ma anche un bel batticuore da emozione e tanta voglia di andare a vedere se questo Galles è davvero così bello come dicono. Scommetto di si.
Il volo fila via liscio, 2 ore e 25 di calma accettabile nonostante ci siano molti bimbi a bordo, e con un atterraggio un po’ deciso siamo di nuovo al John Lennon di Liverpool. E’ sempre come me lo ricordavo, piccolo e ordinato, moderno e indaffarato, pulito ed efficiente, probabilmente l’unico aeroporto al mondo che ha un sottomarino giallo parcheggiato di fronte all’uscita. Adorable.

Alla Hertz perdiamo un po’ di tempo per via di un impiccio tra il loro posse e una nostra carta di credito, ma alla fine tutto si sistema e ci assegnano una Smart Forfour nera e grigia praticamente nuova, il contachilometri segna solo 10 miglia. E’ completamente accessoriata e molto più spaziosa di quanto sembri, ben rifinita e comoda per noi e i nostri 3 bagagli. Credo che sarà una buona compagna di viaggio, in questo nuovo tour che sta per cominciare. Facciamo una colazione veloce allo Starbucks dell’aeroporto, visto che ci siamo alzati prestissimo e non abbiamo ancora mangiato niente, quindi partiamo in direzione di Conwy, col nostro navigatore personale pronto a guidarci nel traffico intenso della periferia di Liverpool.

Ogni volta l’impatto con la guida a sinistra è strano e vagamente eccitante, come mettersi a fare qualcosa di molto rischioso approfittando del fatto che tanto non ti vede nessuno, con la testa di colpo leggera e il cervello che si deve sforzare per convincersi che è tutto a posto mentre infili impunemente le rotonde al contrario e cerchi di calcolare velocemente di chi diamine è la precedenza al prossimo incrocio. Il lieve senso di disorientamento dura poco comunque e lascia il posto al divertimento, e alla sensazione che siamo davvero in un altro posto, lontano da casa e dalle solite cose di tutti i giorni: una nuova avventura sta cominciando. Facciamo la A55, un’autostrada larga e ben tenuta che va verso sud-ovest, che si rivela comoda e senza noiosi pedaggi. In circa un’ora e un quarto ci lasciamo l’Inghilterra alle spalle e raggiungiamo Conwy, prima tappa gallese, un villaggio sul mare molto piccolo e molto carino con una grande baia sabbiosa dominata da una rocca sulla quale si erge il castello medievale che lo ha reso famoso.

Eretto alla fine del 1200, fu costruito nei territori a nord del paese per volere di Edoardo I insieme a una serie di altri castelli simili che costituirono The Iron Ring, un cerchio di cittadelle fortificate volute dal re inglese per tenere meglio a bada i nobili gallesi. Questo è tra quelli che si sono conservati meglio, anche se purtroppo il passaggio dei secoli e delle guerre di potere ha lasciato il segno sulle sue vecchie pietre. Comunque, quel che resta basta e avanza per dare un’idea di quanto dovesse essere magnifico ai suoi tempi. Il perimetro delle mura difensive è intatto, tutte le sue imponenti torri merlate a base rotonda ancora svettano come sentinelle sull’attenti, mentre dall’alto dei camminamenti si può seguire con lo sguardo la linea delle vecchie mura fortificate che racchiudevano il centro storico originale.

Oggi il tetto del castello non esiste più, non ci sono i solai che delimitavano i vari piani delle zone abitate, e la Great Hall ha un pavimento di erba verdissima, ma l’impressione che suscita questo edificio è ancora regale.

L’atmosfera che si respira nel castello, girovagando tra stanze scoperchiate e torri massicce, corridoi bui e feritoie sottili, merli di pietra e ripide scale a chiocciola, non potrebbe essere più medievale di così. Se si riesce a far finta di non vedere il parcheggio di auto proprio sotto le mura, il viaggio nel tempo è assicurato.

La cosa più incredibile resta comunque la vista che si può godere dall’alto delle torri di vedetta, veramente spettacolare. Sotto di noi si distende una grande baia fitta di barchette colorate che galleggiano tranquille sullo specchio d’acqua racchiuso tra le montagne e illuminato dalla luce intensa della tarda mattinata, per nulla intimorite dalle mura possenti, splendidamente fuori epoca rispetto al castello di pietra che le sovrasta.

Facciamo un bel po’ di fotografie, con la scusa di testare sia le capacità della nuova fotocamera che la durata sconosciuta della sua batteria, e il sole si mantiene splendente nel cielo blu anche se il vento soffia deciso sui draghi delle bandiere issate in cima alle torri.

Usciamo con la sensazione che stiamo lasciando un posto speciale, uno di quei rari ‘luoghi-portali’ che hanno il potere magico di trasportarci in un altro tempo in un attimo e senza nessuna fatica, un’epoca fatta di assedi e battaglie, spade e armature, torri e fossati, cavalieri e draghi. Uno dei castelli più belli che abbiamo mai visto, questo di Conwy. Il tour comincia veramente nella maniera migliore possibile.

Attraversiamo il centro del paese, fitto di negozi tipici e turisti a passeggio, e arriviamo fino al bordo del mare, dove troviamo la seconda attrazione che vogliamo visitare oggi: la casa più piccola della Gran Bretagna.

È proprio la casa più piccola in tutto il territorio britannico, è registrata perfino nel Guinness dei Primati, ed è deliziosa: una minuscola struttura in fondo a una fila di case standard, proprio di fronte al mare, con la facciata dipinta di rosso e gli infissi neri. Ci mettiamo in fila (si entra una famiglia per volta, per ovvi motivi logistici…), paghiamo il nostro Pound alla simpatica signora in abito tradizionale che accoglie i visitatori, e attendiamo il nostro turno chiacchierando un po’ con lei.

La casa è minuscola come promesso, sarà 3x2m e non ha neppure una pianta regolare, in pratica c’è solo un mini salotto con caminetto, una piccola panca a parete dove sedersi, un tavolino da una parte e alcuni quadri e foto appesi alle pareti. Alla destra della porta d’ingresso una scala a pioli sale verso il soppalco, dove ci si può solo affacciare per scorgere un letto singolo in ferro, una toletta e un comodino, con una finestrella minuscola che si affaccia sulla baia. La sua costruzione risale al 1600 ed è stata regolarmente abitata fino al 1900, quando il pescatore che ci viveva dovette trasferirsi per ragioni di sicurezza legate a problemi strutturali dell’edificio, dichiarato non più agibile. Dopo un po’ fu risistemata e trasformata in attrazione turistica, ormai imperdibile per chi passa da qui. Molto curiosa e carina, sono proprio contenta di esserci stata; questa va diretta nell’elenco di quei luoghi speciali che non dimenticheremo. Quando si dice la mia casa è il mio castello…

Dopo la mini-visita alla casina rossa risaliamo lungo la via principale del paese e ci fermiamo per un lunch veloce in un locale arredato in vago stile provenzale, a mangiare ottime zuppe vegetali, sandwich di formaggio e tè serviti benissimo a un prezzo più che ragionevole. Davvero niente male, Conwy.

Dopo la pausa di rifocillo, che ci voleva proprio, ripartiamo in auto diretti a Llandudno, e più esattamente al Bodnant Garden. Ci arriviamo in 10 minuti, e ce ne servono altrettanti per far scoprire alla signorina della cassa che i membri del FAI italiano hanno diritto a entrare gratis visto che il giardino è gestito dal National Trust. Quando trova la conferma nel suo librone resta molto soddisfatta, e ci fa finalmente accedere con dei biglietti a 0,00£.

Il giardino è molto bello, e molto grande. È più un parco che un giardino in effetti, che si estende per vari ettari intorno a una villa spettacolare che però è privata, e quindi non accessibile. Altro che la casa più piccola della Gran Bretagna…

La residenza è stupenda e il parco è certo all’altezza della magione che circonda. Querce, magnolie, aceri, sequoie, bossi, abeti, faggi, e una varietà di siepi, bordure e fiori così ben sistemati da far intuire l’opera di uno squadrone invisibile di giardinieri perché tutto questo sembri sempre perfetto e bellissimo per natura.

Ci sono un roseto terrazzato, una vasca enorme di ninfee fiorite e vari laghetti e ruscelli, c’è perfino una cascata d’acqua sotto a un ponte di legno, a rendere tutto incredibilmente fiabesco. Davvero un luogo di tranquillità e bellezza, tenuto splendidamente.

Nel fornitissimo shop, pieno di bellissimi oggetti da giardino che non potremo mai portare via con Ryanair, mi regalo un foulard grigio con le rondini che mi piace molto e costa poco (lucky me) e, visto che sta chiudendo, torniamo alla macchina diretti al b&b di stasera.

Il proprietario si chiama Phil, è gentilissimo anche se parla buffo, e la nostra stanza è accogliente e pulitissima. Ci sistemiamo e andiamo a cena in un pub vicino consigliatoci da Phil, The Albert, dove mangiamo piatti abbondanti e ci gustiamo la prima pinta di questo nuovo tour britannico che è finalmente incominciato. Sentirsi a casa è un attimo.

Lunedì 25 / martedì 26 agosto 2014: Stoke-on-Trent Wedgwood Museum – Chester Cathedral – Liverpool – Pisa

Ci svegliamo in mezzo a una pioggia fitta che scende a diritto, il cielo è un enorme coperchio grigio sopra la terra. Temo che le probabilità di un cambiamento repentino saranno scarse, stavolta. Facciamo colazione al buffet del Best Western, che offre ottimo cibo sia dolce che salato, e poi torniamo nella nostra stanza, in fondo a un labirinto di corridoi, a preparare le nostre cose prima di partire per la prima tappa di oggi.

Riprendiamo la macchina e puntiamo in direzione Stoke-on-Trent, a me nota per due motivi soprattutto, uno dei quali è quello che ci interessa al momento: la sede della fabbrica e del museo delle ceramiche Wedgwood. Yes! Ci arriviamo in una quarantina di minuti e ancora piove, ma fine fine, le gocce sono così piccole e leggere che il vento le fa volare via, sembra che non riescano neppure a toccare terra. Il luogo è un po’ sperduto nella campagna, ma la Miss della Volvo ci aiuta a raggiungerlo senza alcuna difficoltà. Questa è la sede nuova del museo, sistemato in un edificio di foggia moderna, tutto cemento e vetro, linee curve, grandi spazi luminosi e piastrelle rosse nel piazzale antistante. Niente che ricordi a prima vista una fabbrica di porcellana vecchia di oltre due secoli. Unica eccezione a tanto sfoggio di modernità, una statua in bronzo del fondatore in abiti settecenteschi e parrucca a boccoli, che tiene orgogliosamente in mano il suo vaso più famoso. Però anche qui niente piedistalli o colonne vecchio stile, il signor Wedgwood ha i piedi posati direttamente per terra, su una piccola pedana alta pochi centimetri sistemata in fondo al grande piazzale di accesso. Mi piace.

Entriamo in fretta perché il clima non perdona oggi, e anche la signora alla cassa, quando le dico che veniamo dall’Italia, ci conferma che siamo stati accolti dal tipico maltempo inglese. Non che mi importi minimamente, ovvio. Nel momento in cui metto piede nel museo, tutto quello che c’è fuori sparisce completamente, e tornerà a esistere solo dopo che saremo usciti da questo luogo che sognavo di vedere da almeno due decenni. Non c’è molta gente ancora, e possiamo visitare le sale in tutta tranquillità. (Purtroppo è vietato fare foto all’interno del museo, quindi le foto seguenti sono prese da pubblicazioni ufficiali di Wedgwood online).

L’esposizione è curata molto bene, con grandi teche organizzate in maniera cronologica che contengono i pezzi più importanti della storia della fabbrica di ceramiche fondata da Josiah Wedgwood nella seconda metà del ‘700. Ci sono pannelli descrittivi, oggetti, ritratti, monitor touch-screen con filmati che approfondiscono procedimenti e lavorazioni, e moltissimi campioni originali degli esperimenti tecnici fatti da Josiah e dai suoi collaboratori per arrivare a ottenere proprio il materiale desiderato, l’esatta sfumatura di colore, la più precisa decorazione applicata a mano, o il giusto livello di lucidatura .

Da quanto si vede raccontato in queste teche, Josiah era una specie di Steve Jobs ante-litteram, perfezionista, entusiasta, uno avanti al suo tempo che sapeva esattamente dove voleva arrivare e come fare per arrivarci. Credeva assolutamente che ce l’avrebbe fatta, voleva portare le sue porcellane in tutti i palazzi più importanti d’Inghilterra e del mondo compresi quelli Reali, ed era certo che ci sarebbe riuscito. Sapeva quello che i suoi clienti desideravano ancora prima di loro e sapeva come indurli a scoprire cosa volevano, e a capire che lui poteva darglielo al più alto livello. Il suo lavoro doveva essere perfetto in sé e perfetto per i suoi clienti, e lo era. La sua fabbrica di porcellane, organizzata per la prima volta nella storia della manifattura in sezioni diversificate per produzione e studio del design, decollò alla grande e in pochi anni divenne un’istituzione a livello mondiale, esattamente come lui aveva previsto.

E la cosa più bella che si capisce dalle descrizioni e dagli estratti delle lettere e dei diari di Josiah è che lui si divertiva moltissimo a fare questo lavoro. Gli piaceva proprio, e ci si dedicava con una passione totale che andava ben al di là del successo economico ottenuto. Non si stancava mai di sperimentare e provare nuove tecniche, nuovi impasti, nuovi colori, con risultati che raggiunsero livelli di assoluta perfezione tecnica e stilistica.

Nonostante producessero moltissimi tipi di oggetti, dai serviti per la tavola a quelli per il tè, dai candelieri ai medaglioni, dai bassorilievi ai decori da arredo, la sua vera passione erano i vasi, quelli che preferiva in assoluto e sui quali lavorò più a lungo e con maggior attenzione, soprattutto dopo essere riuscito a ottenere l’impasto color avorio e poi il Jasper, la ceramica vetrosa liscia e satinata di colore unito, azzurro, verde o lilla, che faceva da base alle sue delicate applicazioni neoclassiche in gran voga tra i nobili del momento, superando in clienti persino le famose rivali di Sèvres e Meissen.

Utilizzò molto anche il basalto nero, di grande effetto ed eleganza, e proprio un vaso di basalto nero decorato con applicazioni bianche, copia esatta del famoso “vaso Portland” romano del I secolo d.C. esposto al British Museum, era considerato da Josiah il suo capolavoro tecnico.

Anche dopo la morte di Josiah la fabbrica è rimasta per generazioni alla famiglia Wedgwood, i cui discendenti hanno sempre continuato a occuparsene e a produrre ceramiche meravigliose per le casate più importanti del mondo, dagli imperatori austriaci e francesi agli zar della Russia, allargando la produzione a serviti da tutti i giorni e oggetti accessibili anche al grande pubblico di ammiratori globali di questo brand. Anche se in effetti, non proprio tutti i suoi discendenti si occuparono di porcellana. Dei sette figli di Josiah infatti, una era Susannah, che sposò Robert Darwin, e uno dei loro figli fu Charles Darwin, l’autore della teoria dell’evoluzionismo la cui casa è stata la prima tappa di questo nostro giro. Lui a sua volta sposò sua cugina di primo grado Emma Wedgwood, figlia di Josiah II (fratello di Susannah), facendo di Josiah I il nonno di entrambi i coniugi. Incredibili storie di altri tempi, che ci regalano una perfetta chiusura del cerchio di questo nostro tour inglese.

Ovviamente alla fine del museo c’è lo shop – Banksy docet – , dove si possono acquistare i pezzi pregiati (e assai costosi) di questa famosa manifattura, mentre vicino all’ingresso c’è anche un Outlet, dove si possono trovare pezzi di seconda scelta a prezzi decisamente più accessibili. Anche Morris (del B&B di Stratford), quando gli abbiamo detto che venivamo qua, ci ha raccontato che sua madre è appassionata di queste porcellane e ogni volta che viene a trovarlo dal Giappone passa dall’Outlet e torna con delle gran buste di roba. Beata lei! Facciamo un giro nel negozio, dove sono esposti bellissimi serviti moderni (compreso il nostro amatissimo Jasper Conran) ma anche più tradizionali, e dove persino le tazze più semplici hanno prezzi notevoli, quindi ci spostiamo nell’Outlet per vedere come dice Luca “…se lì ne hanno una sbeccata”. Non potremo riempire grandi buste di roba come la madre di Morris, ma non possiamo neppure venire via a mani vuote. Scegliamo un piccolo oggetto da riportare a casa con noi, una campanella color sabbia decorata con un cristallo di neve da appendere al nostro albero di Natale, che ci ricorderà sempre della nostra visita in questa incantevole fabbrica di sogni di porcellana.
All’uscita piove ancora, ma piano. Sgranocchiamo qualcosa e ripartiamo in direzione di Chester, a circa un’ora di distanza, dove parcheggiamo in un Park&Drive e prendiamo un bus per raggiungere il centro storico pedonale. La cittadina sembra molto carina, tutta di mattoni e graticci, circondata da un lungo perimetro di mura romane ancora intatto e belle vie con negozi dalle grandi vetrine disposte su due piani, ospitate in vecchi palazzi.

In questa incredibile cattedrale è conservato anche l’unico esemplare esistente in UK di ‘cobweb picture’, un piccolo dipinto completamente realizzato su una tela composta da strati e strati di sottilissima ragnatela di bruco. Era una tecnica di nicchia usata nel nord Italia e in Tirolo dai monaci del XVI secolo e ripresa poi fino al 1800, ma si tratta di opere rare relegate a un’area molto ristretta ed è molto difficile avere l’occasione di ammirarne una. Questa è una riproduzione della Madonna con Bambino di Cranach conservata a Innsbruck ed è sorprendentemente bella, così impalpabile da somigliare a un’immagine olografica. Mi pare di vederlo, il monaco pittore in toga e sandali, andare avanti e indietro per il bosco in cerca di ragnatele abbastanza grandi da poter essere usate come tele, raccoglierle con infinita delicatezza e riportarle nella sua cella come un’ape operosa, sovrapporle piano piano fino a raggiungere uno spessore sufficiente per posarci sopra la punta sottile di un pennello e colorarle della sua appassionata devozione. Nessuno come un monaco può avere un animo colmo di tanta ostinata dedizione, una fede incrollabile nell’impossibile, e l’eternità a disposizione per dare loro una forma degna di un dono per Dio.

La cattedrale è affiancata da un chiostro bellissimo, con i corridoi a colonne chiusi da vetrate istoriate che lo isolano dal giardino, il che, visto il clima di oggi, non è neanche una brutta idea. L’atmosfera è silenziosa e raccolta, muta, ma non ha niente a che vedere con la pace luminosa e libera dei chiostri benedettini: qui ci si muove in uno spazio della chiesa ritagliato via da tutto il resto, in un’architettura severa la cui struttura rigida pare star lì a indicarci col dito l’unico cammino spirituale possibile.

Una cattedrale davvero bella, questa rossa e un po’ triste di Chester.

Per tutto il tempo del nostro giro nella piccola cittadina continua a piovere, il che non facilita la nostra visita, e alla fine decidiamo di riprendere il bus e tornare al parcheggio, per ripartire in direzione Liverpool. L’Ibis Hotel di stasera è carino e centrale e la nostra stanza è a tema, con la parete di fondo colorata di rosso e dipinta con decine di grosse fragole sormontate dalla scritta FOREVER. Vorrei poterci restare subito, perché sono stanca e fuori fa freddo, ma dobbiamo andare a restituire la macchina all’aeroporto e non vogliamo fare tardi. In una ventina di minuti arriviamo, al John Lennon Airport di Liverpool, e troviamo l’ufficio Hertz con facilità. Lì salutiamo la nostra Volvo V40 e la sua utilissima Miss, che ci hanno accompagnati per molte centinaia di miglia, e mi dispiace davvero lasciarle. Sono state compagne di avventure fedeli e affidabili, mi ero ormai abituata alla voce della Miss che ci guidava dappertutto con esattezza, e so che mi mancherà.

Prendiamo due panini per cena e torniamo in centro con il bus, l’autista che ci fa il biglietto ci conferma che ci farà scendere alla fermata più vicina al nostro hotel, il che avviene dopo circa 25 minuti. Piove ancora e fa freddo, sono le otto passate ma la luce è ancora intensa. Saliamo in camera a mangiare e a sistemare le nostre cose, stanchi e piuttosto tristi. Domani pomeriggio torniamo a casa, il nostro giro è agli sgoccioli. Ma cerchiamo di riposare e non pensarci troppo già da adesso.

Anche l’ultima notte inglese scorre via tranquilla, nonostante siamo vicini al centro, e finalmente stamattina ha smesso di piovere. Facciamo colazione e poi usciamo nell’aria fresca, a vedere di dare un’occhiata anche a questa città nel poco tempo che abbiamo a disposizione prima di dover raggiungere l’aeroporto. Ci muoviamo a piedi lungo vie ben curate e tranquille, nella zona più vicina al mare, e oltrepassiamo diversi edifici in stile neoclassico tra cui un bel Teatro e la St George’s Hall con la sua grande scalinata, il colonnato e le entrate sui tre lati.

La nostra meta è la Cattedrale anglicana della città, la Cathedral Church of Christ, situata nella zona di St James Mount. La si può vedere già da lontano, e non solo perché sorge su una sorta di collinetta: questo è l’edificio religioso più grande di tutto il Regno Unito e una delle chiese più grandi del mondo. Massive! La struttura è poderosa, tutta in pietra rossiccia locale, si estende per una lunghezza totale di quasi 200 metri ed è sormontata da una torre centrale quadrata alta più di 100 metri, per un’altezza a livello della navata principale di circa 35 metri. Proporzioni colossali e spazi ampissimi, in cui è facile entrare e perdersi. Anche se questo non è un edificio antico come sembrerebbe essere, e le sue pietre non hanno visto passare che pochi decenni della più recente storia britannica. Nonostante lo stile gotico dell’architettura infatti, siamo di fronte a una delle cattedrali più giovani del Paese, la cui costruzione fu iniziata solo nel 1904 per essere terminata quasi un secolo dopo, alla fine degli anni ’70. Non Elisabetta I e Shakespeare per lei, piuttosto Elisabetta II e i Beatles.

Gli interni sono davvero grandiosi, con colonne di mattoni altissime che si uniscono in volte a croce minimali ed eleganti, mentre le immense finestre istoriate, insufficienti a rischiarare gli spazi enormi racchiusi da queste mura, sono coadiuvate nel loro compito di illuminare la via dei visitatori da grandi fari elettrici.

Tra i pezzi migliori conservati in questa chiesa ci sono diversi altari scolpiti, bellissime cappelle laterali su diversi livelli, un bel fonte antico e un enorme organo a canne che è – ça va sans dire – il più grande di tutta la Gran Bretagna, con oltre 10.000 canne funzionanti e una tastiera a 5 livelli, capace di creare abbastanza note da riempire perfino questo spazio immenso.

La zona di accesso alla navata principale è grande e vuota come una piazza di sera, e mentre siamo lì ci sorprende un rumore di sottofondo molto più adatto a un luogo del genere che non all’interno ombroso di una cattedrale – un tintinnio basso di porcellane e bicchieri, e cucchiaini che girano nelle tazzine. Eh? Ci scambiamo uno sguardo rapido, come per verificare che lo sentiamo entrambi, quindi ci voltiamo alla nostra sinistra, e subito scopriamo l’arcano. Un bar, dentro la nicchia di una cappella laterale. Proprio un bar regolamentare, con tanto di tavoli e sedie, lampade e menu, banconi di dolci e via vai di camerieri. The Mezzanine Café Bar. Il piano inferiore separato da noi da grandi vetrate trasparenti, il mezzanino con i tavoli che si affacciano direttamente sul transetto. Architettura moderna, ambiente luminoso, atmosfera rilassata, gente che va e viene. Restiamo un momento imbambolati dalla sorpresa. Questa poi. Non ce l’aspettavamo proprio. Gente che prende il tè o mangia un dolce, chiacchiera e si riposa nella cattedrale come fosse in una qualunque via cittadina. Cioè, non che sia una novità assoluta, abbiamo trovato altre chiese o conventi che avevano una caffetteria o un refettorio dove mangiare o prendere un cream tea, ma era sempre comunque a fianco dell’edificio principale o in un’area diversa, e certamente non dentro allo stesso luogo dedicato al culto. Credo sia la prima volta in assoluto che ci capita di vedere una cosa simile. Nutrimento per lo spirito e per il corpo, tutto in uno. Siamo stupiti, e un po’ confusi. Da una parte è bello vedere gente che si rilassa e si riunisce in questo luogo di incontro, ma dall’altra il mio istinto solleva dubbi e sopracciglia di fronte a questo spettacolo insolito che stride decisamente con la nostra idea di luogo di culto. Per essere una che nelle chiese entra solo per ammirarne l’architettura, resto comunque infastidita dagli onnipresenti Shop che ti propinano di tutto a sacro marchio, dai rosari alle cartoline ai fazzoletti per il naso. Venire addirittura a farci merenda dentro, mi lascia perplessa. Non so, ma se fossi credente, vorrei che la panca dove siedo per parlare con Dio e la sedia del mio bar restassero ben separate. Un tempo per ogni cosa…. eccetera. Insomma, se aprissero una caffetteria di lato alla Gioconda mi potrei anche seriamente infuriare, per dire. Comunque. Ognuno ha il suo genere di devozione. Magari quello anglicano è questo, non siamo certo qui a giudicare, e proprio noi poi. Ci limitiamo a prendere nota. Di certo, questa per noi resterà sempre ‘la cattedrale di Liverpool dai…. quella grande grande… dove c’era il bar dentro, e la gente che prendeva il caffè…. ti ricordi?’

Dopo aver visto il Bar, il modellino della Cattedrale fatto coi mattoncini Lego conservato in una cripta non ci stupisce quasi per niente. Anzi, è molto bello e molto ammirato dai visitatori. La ricostruzione è perfetta in ogni dettaglio, come al solito con i capolavori della Lego di questo genere, che non deludono mai. La somiglianza con l’edificio originale è straordinaria, hanno anche colorato le migliaia di mattoncini di un bel rosso intenso, perché somigliassero il più possibile a quelli veri. Archi, finestre, torri, tetti, c’è persino un cancello d’ingresso apribile, che fa subito venire voglia di mettersi lì a giocare. Che invidia, per chi crea queste meraviglie di professione…..

All’uscita da questa enorme chiesa attraversiamo a piedi un altro pezzo di questa città, che si sta rivelando più insolita di quanto ci aspettassimo, diretti verso il secondo edificio religioso più importante del luogo, la Cattedrale Metropolitana del Cristo Re.

Si tratta della maggior chiesa cattolica della città, è dedicata al Cristo Redentore e si trova in cima a una collinetta dalla quale si domina il profilo cittadino. La sua costruzione risale alla prima metà degli anni ’60 e il suo stile è decisamente moderno, nulla a che vedere con le cattedrali tradizionali viste fino ad ora. Dato il grande numero di abitanti di origine irlandese arrivati qui dopo la grande crisi economica che colpì l’isola verde a metà ottocento, la comunità cattolica è sempre stata molto nutrita in quest’area, e per questo ad un certo momento divenne evidente la necessità di costruire un luogo di culto cattolico che fosse grande abbastanza per accogliere tutti i fedeli durante le messe e le cerimonie principali.

Vari progetti furono presentati ed esaminati e alla fine fu scelto questo, sicuramente il più originale. La cattedrale ha un’insolita pianta rotonda e un tetto a tronco di cono che la fa somigliare un po’ a un tepee indiano, sormontato da un’enorme torre a forma di corona che simboleggia la corona di spine di Gesù. L’ingresso, in cima a una lunga rampa di scale che fa pensare a una simbolica ascensione, è segnato da una grande parete verticale scolpita con croci e simboli, che termina con 4 aperture nelle quali sono appese 4 campane, e che ha la funzione di torre campanaria. L’esterno, così geometrico tutto bianco e acciaio, ha un che di vagamente fantascientifico, tanto che da fuori sembra quasi una grossa astronave atterrata sulla collina che ha appena aperto il suo portello d’ingresso. Chissà chi sta per scendere…

L’interno è incredibilmente spazioso, adatto ad accogliere oltre 2000 persone sulle panche di legno sistemate in cerchi concentrici tutto intorno al punto focale della costruzione, l’altare centrale, posto proprio in mezzo al cerchio dei fedeli e sotto la perpendicolare diretta del baldacchino sovrastante, dal quale la luce scende passando attraverso centinaia di tasselli di vetro in una trinità di rossi, gialli e blu che caricano l’ambiente di atmosfera spirituale. Tutto intorno ai cerchi di panche girano una serie di cappelle secondarie dedicate a vari santi, la più importante delle quali si trova dietro l’altare ed è dedicata alla Vergine. Facciamo un giro – letteralmente – e restiamo affascinati da questa struttura moderna e primitiva allo stesso tempo, in cui l’originalità non intacca minimamente il senso di sacro che ci si aspetta di trovare in questo tipo di luoghi.

Quando usciamo è ora di pranzo inoltrata, quindi torniamo verso il centro per mangiare qualcosa prima di passare a prendere le valigie all’hotel e dirigerci verso l’aeroporto. Troviamo un ultimo pub di quelli che piacciono a me e che mi mancheranno moltissimo, tutto legno e cuoio e odore di birra nell’aria, e ci sistemiamo in un angolo tranquillo a studiare il nostro ultimo menu inglese e a gustarci l’ultima vera pinta.

Alla fine, siamo meno tristi di quanto temessi. Se dobbiamo fare un bilancio di questo tour così lungo e vario, possiamo senz’altro dire che è stato positivo, e anzi migliore di qualunque aspettativa avessimo al momento della partenza, ormai quasi 20 giorni fa. Abbiamo visto tante cose interessanti, visitato posti bellissimi, incontrato gente gentile e dormito in ogni tipo di sistemazione. Siamo stati a casa di scienziati, scrittori, artisti, politici e gente comune, e ognuna di queste case era bella a modo suo. Abbiamo viaggiato per borghi antichi e paesaggi verdissimi, immersi tra fiori e alberi, sole e pioggia scrosciante, e salutato decine di pecore, mucche, scoiattoli e qualunque altro animale si potesse vedere dal finestrino della nostra macchina. Siamo passati per musei e cattedrali, giardini e labirinti, castelli e scogliere, antichi college e vecchi pub, e ogni luogo era più entusiasmante del precedente. Mi è piaciuto moltissimo questo giro che sognavo da tantissimo tempo, e che ho potuto realizzare solo grazie alla presenza imprescindibile di Luca. Potrei continuare a girare il mondo così, insieme a lui, indefinitamente.
Anche a lui è piaciuto tutto, dalle colazioni mattutine con la salsiccia e i fagioli alla guida a sinistra, dalle ‘case della gente’ alle pecore sparse, dai cavalieri medievali alle file ordinate ovunque. Tutto molto interessante, ‘…ma magari la prossima volta ci veniamo d’estate.’
Eh… magari. E speriamo presto.