L'importante non è cosa guardi, ma cosa vedi
 
Venerdì 18 maggio 2012: Cabo da Roca – Cascais – Estoril – Evora

Venerdì 18 maggio 2012: Cabo da Roca – Cascais – Estoril – Evora

Sintra ci è piaciuta molto, ma dobbiamo lasciare il nostro appartamentino di prima mattina per cominciare la nostra ultima giornata di visite prima di raggiungere la capitale, Lisbona. Acquistiamo dei biscotti tipici a una pasticceria sulla piazza principale, per portare via con noi un dolce ricordo di questa cittadina, e ci rimettiamo in auto, destinazione Cabo da Roca.

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Cabo da Roca non è un paese vero e proprio ma un promontorio roccioso che si affaccia a strapiombo sull’Oceano Atlantico, famoso non solo per la sua bellezza naturale ma perché e’ il punto più a ovest d’Europa. Come dire che quando disegni la cartina dell’Europa, questo e’ il punto che più di tutti si protende verso occidente. Oltre queste rocce c’è solo acqua, tutta l’immensa striscia blu dell’Oceano che divide il nostro continente dall’America. Un ennesimo Finis Terrae di quelli che piacciono a me, che abbiamo già tracciato anche in Irlanda, in Spagna e in Francia, solo che questo è quello vero, proprio il più sporgente di tutti, la vera punta della freccia che indica la via verso il Nuovo Mondo.

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A segnalare il Cabo c’è un bel faro, come in molti posti del genere, una costruzione larga e bassa con una torretta in pietra sormontata da una grossa lanterna di metallo rosso. E’ semplice, ma suggestiva e affascinante come solo i fari sanno essere; colorati, solitari, vigili, strane sentinelle perpetuamente intente a lanciare il loro messaggio rovesciato – attenzione naviganti, qui finisce il mare, e comincia la terra.

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Non c’è molto nella zona del Cabo oltre al faro, solo una specie di obelisco di pietra con una croce in cima, e un grande prato fiorito che si getta nello strapiombo della falesia, alta più di 100 metri. Null’altro. Ma questo luogo e’ preso regolarmente d’assalto dai numerosissimi gruppi di turisti che si trovano a passare da queste parti, perché è bellissima da vedere, questa immensa distesa d’acqua che dilaga a perdita d’occhio davanti a te, e pensare che, anche se sembra impossibile, invece a un certo punto finisce, e arrivi in America.

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Insomma, se ti affacci di qui e guardi bene, laggiù in fondo in fondo puoi vedere New York. Nei giorni senza foschia, come dice Luca.

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Volendo, all’ufficio del turismo del Cabo ti rilasciano anche un certificato che attesta che ci sei stato, nel punto più occidentale del continente europeo, ci hai messo i piedi, e più di lì non potevi andare. Ma devi pagarlo la bellezza di 5,20€, oppure 10,00€ se lo vuoi in versione un po’ più fighetta. Ci e’ sembrata una trappola troppo palesemente turistica, così abbiamo lasciato perdere,decidendo che le nostre foto saranno una prova più che sufficiente a testimoniare l’evento.

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Falesia a parte, è veramente bellissimo il mare, qui. E’ quello che la gente viene a vedere fin quaggiù, l’Oceano – senza fine, disteso davanti a questo estremo lembo di terra che punta a ovest, ritaglio irregolare di puzzle che si incastra perfettamente nel continente liquido. Non si può andare oltre, da qui, se non con lo sguardo. O con il coraggio folle dei grandi navigatori portoghesi che si lasciarono questa terra alle spalle portando il loro sogno e la loro lingua in tutto il Sudamerica. Una meraviglia rara. Ce ne andiamo prima che arrivino i bus carichi di turisti vocianti, per conservare nel nostro ricordo l’atmosfera magica di silenzio e solitudine che questo luogo ci ha regalato.

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Da Cabo de Roca ci dirigiamo direttamente a Cascais, famosa località balneare poco fuori Lisbona tra le preferite dei portoghesi come meta di vacanze estive. E’ una cittadina molto piccola ma affascinante, con un porticciolo sul mare e un famoso mercato del pesce che si anima ogni mattina al rientro dei pescherecci locali.

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Caratteristici della cittadina sono alcuni edifici eleganti e una piazza con la tipica pavimentazione a motivi geometrici bianchi e neri, che regala l’impressione di camminare dentro a un gigantesco disegno a china.

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Visitiamo anche la chiesa, dall’architettura semplice ,ma che offre allo sguardo metri e metri di bellissimi Azulejos a tema religioso che decorano le pareti e l’altare. C’è un pellegrino che conosciamo, nel giardinetto davanti al sagrato, uno di quelli che nei suoi innumerevoli viaggi sarà certamente arrivato anche qui.

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La zona più bella è comunque quella del porto, con le mura degli antichi bastioni, i giardini, la passeggiata a mare, e il faro di Santa Marta a righe bianche e azzurre (chissà perché sono quasi sempre a righe, i fari). In un piccolo slargo proprio lungo il molo ci colpisce la vista di un’insolita statua in bronzo: è un comandante in divisa, fisicamente ben piazzato, dallo sguardo immobile, che fissa l’Oceano di fronte a sé dalla sua postazione di vedetta sul ponte di una nave invisibile. Un inatteso Drogo in versione marinara che scruta perennemente l’orizzonte, aspettando chissà quali invasori.

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E’ una cittadina piccola e semplice Cascais, ma di grande fascino, quello un po’ scolorito dei posti che hanno visto tempi migliori, ma che neanche il passare inesorabile del tempo riesce a rovinare del tutto. Un luogo che vale una piccola sosta.

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Circa 3 km oltre Cascais troviamo Estoril, dove paghiamo la ragguardevole cifra di 0,60€ per parcheggiare la nostra auto nella piazza principale di questa nota località balneare. Più che nota, Estoril è stata fino a qualche anno fa una cittadina decisamente rinomata, meta mondana di VIP e rifugio di molte famiglie reali europee, una specie di Montecarlo in versione portoghese dove trovare alberghi di lusso con giardini di palme e campi da golf, spiagge attrezzate, musica fino a notte fonda e un famoso Casinò aperto giorno e notte. Ma soprattutto, qui si teneva ogni anno un evento che attirava moltissimi visitatori, la tappa portoghese del Gran Premio di Formula 1.

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Oggi le cose sono un po’ cambiate, il Gran Premio non si corre più, buona parte della vita notturna si è trasferita a Lisbona, e il Casinò apre solo dopo le 15,00. Quel che resta è un paesino posato davanti all’Oceano affascinante come un villaggio di fiabe, con il suo castello, la spiaggia, un lungo molo di legno, e un mare cristallino che per la prima volta non somiglia neppure lontanamente all’Atlantico immenso e grigio visto fin qui.

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Tra il Casinò e l’Oceano, la scelta è semplice. Attraversiamo la piazza e la via del lungomare cercando l’accesso alla spiaggia, e poco dopo scopriamo qualcosa di inaspettato. Lungo la costa, esattamente tra la spiaggia e la strada, corre la ferrovia. Passa proprio in mezzo, parallela a entrambe, e di fatto taglia via la spiaggia dal resto del paese. L’unico modo per raggiungere l’area attrezzata è attraversare la stazione. Si deve camminare per un pezzo lungo la pensilina del binario 1 e scendere la scala del sottopassaggio come se si dovesse partire, invece poi, proprio all’ultimo, si va dritti invece di voltare verso il binario 2, si sale una breve scaletta e si sbuca direttamente sulla spiaggia. Il profumo intenso del salmastro arriva già sotto il tunnel, dove i viaggiatori con borse e valige si mescolano ai bagnanti in ciabatte che vanno agli ombrelloni con l’asciugamano a spalla. Alla fine, è tutto solo una questione di destinazione.

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La spiaggia è bellissima, lunga e bianca, con sabbia fine e rocce lisciate da secoli di carezze atlantiche. Un mare trasparente con riflessi turchesi e radi ombrelloni di palme completano il quadro da angolo di paradiso tropicale. Per la prima volta so che farei il bagno in questo Oceano senza la minima paura. Se non fosse per il cielo di quell’azzurro inconfondibile dove immense nuvole bianche si inseguono come lenzuola impazzite, potrebbe sembrare una tipica località di vacanza esotica.

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Facciamo con piacere una passeggiata per il paese, lindo e ordinato come un presepe di lusso, ma quando risaliamo in auto sentiamo che non avremo poi troppa nostalgia di questa cartolina elegante. Un luogo decisamente più adatto ad annoiati re e regine in esilio che a vagabondi curiosi come noi.

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Recuperiamo l’auto e lasciamo Estoril, direzione Evora. Un’altra delle mete speciali di questo viaggio, dalla quale ci aspettiamo molto. La raggiungiamo all’ora di pranzo, dopo un lungo tratto di autostrada, e ci sistemiamo alla Pension Policarpo, affascinante b&b di grande atmosfera, semplice ma con un bell’arredamento tradizionale, che ha almeno due grandi vantaggi, la posizione centrale e il parcheggio riservato gratuito. La giornata si è fatta calda e luminosa, le case imbiancate a calce e decorate da fregi color ocra sono coperte di fiori, e si stagliano nitide contro l’azzurro intenso del cielo. Ad un tratto il paesaggio si è fatto mediterraneo.

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Ci sistemiamo e usciamo a cercare qualcosa da mangiare, fa così caldo che decidiamo per un piccolo chiosco all’aperto dove mangiamo ottimi panini seduti sotto a un ombrellone, completando lo spuntino con i dolcetti acquistati questa mattina a Sintra. Siamo accanto ad un bel giardino, con aiuole, prati e panchine, ma l’elemento che ci colpisce di più è una strana fontana sistemata proprio in fondo alla terrazza panoramica, con una vasca triangolare al cui centro due buffe figure stilizzate che sembrano appena uscite da un fumetto si scambiano un bacio di marmo senza fine.

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Fin da subito, Evora ci appare per quello che è: una bellissima città-museo circondata dall’originaria cinta muraria le cui tracce risalgono indietro fino ai Romani, un luogo pieno di fascino e di storia, e decisamente una delle radici più antiche della nazione portoghese. Le stradine acciottolate si incrociano tra salite e scalinate, ordinate e silenziose, abbellite qua e là da azulejos fioriti e piccoli balconi di ferro battuto lavorato a mano. Imponenti e misteriosi, spiccano sulla piazza i resti del tempio di Diana, con le 14 colonne corinzie ancora in piedi dal II secolo AC, anno della sua costruzione avvenuta sotto il regno di Cesare Augusto. Un testimone che non ti aspetti, messo lì in mezzo alle case bianche, così classico e mediterraneo, lontanissimo e familiare a un tempo.

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Tra le visite da non perdere c’è certamente la Cattedrale gotica, una costruzione in pietra risalente al XIII secolo che è a tutt’oggi la cattedrale cattolica più grande di tutto il Portogallo. Costruita in stile misto romanico e gotico, colpisce immediatamente per la sua imponenza e per l’aspetto di chiesa-fortezza tipico del periodo, con il grande portale a ogiva fiancheggiato dalle statue dei 12 Apostoli e due alte torri laterali a fare da sentinelle all’ingresso dei fedeli.

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Il biglietto d’ingresso costa 3,50€ e permette l’accesso al chiostro interno e alla torre,che porta al tetto. Il chiostro è molto bello nella sua semplicità, con un camminamento perimetrale elegante, soffitti a volte e colonne sottili che uniscono archi aperti verso un giardino che è quello tipico dei chiostri, ritaglio silenzioso dal caos del mondo esterno.

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L’interno della cattedrale di Santa Maria Assunta è molto interessante, con una navata ampia e lunga dal classico soffitto altissimo, delicate colonne in pietra, decorazioni sofisticate sugli altari, e una insolita statua lignea policroma di una Madonna del parto con la mano posata sul ventre rotondo che è venerata in tutta la regione per la sua fama di elargitrice di grazie alle donne che desiderano un figlio.

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Ma anche più bello dell’interno è il panorama che si gode dalla cima della Sè, una volta scalata la chiocciola della Torre che porta proprio sul tetto della cattedrale-fortezza. Uno spettacolo straordinario di spazi aperti verso l’infinito, tra torrette, cuspidi, comignoli, vele campanarie ed elementi decorativi gotici, con un panorama che dilaga a perdita d’occhio su tutta la regione dell’Alentejo, di cui questa magnifica città è il capoluogo.

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Verso l’esterno, lo spazio infinito e libero di un’intera regione e tutto il cielo del Portogallo, abbellito da batuffoli di nuvole sospese così perfette da sembrare finte. Verso l’interno, la conchiglia chiusa del chiostro, la pace, il silenzio, il raccoglimento, il mondo dello spirito ritagliato via dal reale dalle mura protettive della chiesa-fortezza. Tutti e due bellissimi. Ma più bello di tutto è stare quassù in cima al tetto, sopra a tutto, e poter vedere questo e quello, e non essere obbligati a stare dentro a nessuno dei due.

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Dopo la Sè visitiamo un’altra chiesa famosa di Evora, quella di San Francesco, a lato della quale c’è una cappella nota per una lugubre caratteristica: la Capela dos Ossos. Questa cappella francescana del XVI secolo è molto conosciuta per le sue decorazioni inquietanti che furono realizzate utilizzando proprio ossa umane. Avevo visto qualcosa del genere a Roma molti anni fa, nella cripta dei cappuccini di Santa Maria Immacolata a Via Veneto, dove le cappelle sono più piccole e più numerose e le decorazioni molto più artistiche, ma l’effetto è più o meno lo stesso. Anche qui, le pareti, le colonne, le volte, le finestre, ogni porzione della cappella è ricoperta da ossa e teschi umani appartenuti ai frati francescani che vivevano nella zona, un materiale ricavato da un totale di oltre 5000 persone. Il risultato finale e’ decisamente macabro, ma l’intento dei frati che ebbero questa idea non era di spaventare o far inorridire i visitatori, bensì quello di farli riflettere sulla precarietà della vita, sull’inutilità della vanità e sul tempo che ci è concesso su questa terra, tanto più prezioso quanto più si è consapevoli della sua brevità. Sulla porta un’iscrizione dice: “noi ossa che siamo qui aspettiamo le vostre”. Non molto allegro, in effetti. Comunque, visitare questa insolita cappella non mi lascia tanto sgomenta quanto pensare a come si saranno sentiti quei frati che la realizzarono, chiusi lì per giorni e notti a selezionare ossa da montagne di scheletri di loro confratelli scavati dai cimiteri locali, e scegliere come e dove sistemarli in questa macabra decorazione muraria.

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Solo all’uscita della Capela dos Ossos mi accorgo che, purtroppo, in un qualche momento di questa giornata di visita per chiostri e chiese, deve essersi sfilato uno dei miei orecchini di Thun con le coccinelle, e si è perso. Sono molto dispiaciuta di questo fatto, non per il suo valore intrinseco ma perché era un regalo da parte di persone che amo molto e che mi amano molto, e per me era un oggetto speciale. Potrei averlo perso sui tetti della Se’, perché ogni tanto, quando eravamo lassù, ho passato agli altri la mia macchina fotografica per farmi fare una foto, e forse nel togliermi il laccio dal collo l’orecchino si e’ sfilato, ma è solo un’ipotesi. Abbiamo fatto così tanti passi da stamani, non è facile indovinare dove possa essere caduto. Continuiamo il nostro giro guardando per terra mentre camminiamo per le stradine già percorse e per i giardini, nella vaga speranza di poterlo notare da qualche parte, ma sappiamo che le probabilità di ritrovarlo sono quasi inesistenti. Il mio morale è visibilmente a terra, tanto che poco dopo, in un negozio di artigianato locale, i nostri amici mi regalano un nuovo paio di bellissimi orecchini in argento e sughero con dei piccoli pendenti a forma di farfalla, facendomi luccicare di nuovo gli occhi di gioia. Non importa che i regali siano preziosi, quando lo è chi te li fa.

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Non possiamo completare la visita a questa meravigliosa cittadina medievale senza arrivare alla sua Università, la seconda più antica del Portogallo dopo quella di Coimbra. La sede attuale è ancora nel palazzo originario del 1559, Il Collegio dello Spirito Santo, un bellissimo edificio con un cortile interno circondato sui lati da un loggiato a due livelli incredibilmente elegante, delimitato da archi e colonne. Per visitare l’interno ci mescoliamo agli studenti provenienti da tutto il mondo, indaffarati dietro ai loro zaini pieni di libri e sogni, e l’ambiente che scopriamo è interessante e vivace. Naturalmente, anche qui non mancano intere pareti decorate di Azulejos di un blu intenso, preziose testimoni di un antico passato culturale che continuano a ispirare chi viene qui a studiare come costruire il futuro.

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Nel nostro lungo giro della città arriviamo fino ai suoi bordi estremi dove si può ancora vedere un tratto dell’antico acquedotto romano detto del Sertorio, lungo oltre 4 chilometri. L’espansione del piccolo borgo ha portato all’incontro tra questa magnifica infrastruttura antica e la periferia abitata, permettendoci così di assistere ad un fenomeno insolito. Nel suo dilagare verso l’esterno, il quartiere ha sfiorato, e poi raggiunto, e quindi inglobato l’antico acquedotto, facendolo diventare parte integrante dell’area abitata;. Il risultato è alquanto bizzarro: mura e finestre costruite sotto le arcate, archi accecati utilizzati come pareti divisorie, entrate di negozi che si aprono direttamente sotto le volte, e case intonacate a calce addossate direttamente ai piloni dell’acquedotto romano, in una sorta di invasione barbarica allegra e informale che ha integrato passato e presente senza alcuna difficoltà, con uno straordinario impatto estetico finale.

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Ceniamo in un locale del centro e dopo un’ultima passeggiata me ne vado a letto contenta per la visita a questa antica città, certo una delle mie preferite fino a questo momento, e rattristata solo per il mio orecchino perduto, rimasto da qualche sotto la pioggia battente di questa notte. Un pezzetto di me che lascio per sempre in questo luogo bellissimo.
Ci penso ancora la mattina dopo, non riesco a rassegnarmi all’idea di aver perso un oggetto così speciale, sento che è là fuori che vuole essere ritrovato e che devo fare almeno un ultimo tentativo prima di ripartire. Così lascio che gli altri sbrighino le formalità del check out e del carico dei bagagli per fare di nuovo una corsa fino alla Sè, dove credo di averlo perso. Visto che l’ingresso è a pagamento, spiego in qualche modo la situazione alla signora della biglietteria chiedendo se per caso le è stato recapitato un orecchino smarrito uguale a quello che tengo in mano, ma lei non ne sa nulla. Però è gentilissima e mi invita senza che neppure glielo chieda ad entrare nella chiesa a cercare. Percorro la navata con gli occhi a terra, ma so che le probabilità di trovarlo qui sono poche, sento che l’ho perso all’aperto, sul tetto, ma non oso chiedere che mi facciano andare fino su senza pagare. Un signore seduto accanto al bancone della biglietteria mi vede tornare mestamente dalla mia missione di ricerca e mi chiede più dettagli su quello che è successo, così gli spiego il giro che abbiamo fatto ieri e la mia sensazione di averlo perso sul tetto, in cima alla torre, dove non penso di poter salire. Invece lui dice: su? allora vai a vedere! Ma non ho il biglietto… Vai vai, corri! E mentre lo dice, sorride. Non riesco a credere alla gentilezza e alla cortesia di queste persone, alla semplicità con cui riescono a distinguere un dovere da un favore. Salgo la scala a chiocciola della torre come un fulmine, so che ho poco tempo e poche speranze, gli altri mi aspettano e non voglio che perdano tempo per colpa mia, ma voglio ripartire sapendo di non aver lasciato nulla di intentato. Il tetto è grande e chissà dove può essere caduto, ammesso che lo abbia perso proprio quassù come sono assurdamente certa che sia accaduto. Ignoro le uniche altre due persone presenti sul tetto ad ammirare il panorama e comincio a cercare in giro scannerizzando il suolo con lo sguardo, col respiro affannato per le scale fatte di corsa e la sensazione di avere troppo poco tempo a disposizione. Ma non me ne serve molto. Fatti pochi passi verso una torretta, mi pare di vedere da lontano qualcosa di arancione per terra, un piccolo oggetto colorato che spicca sul grigio delle pietre umide. Mi fermo, non è possibile. Sarà qualcos’altro, un foglietto di caramella o uno scherzo della mia miopia, non può essere proprio il mio orecchino. In pochi passi sono lì, e solo quando lo tocco e lo raccolgo nella mano chiudendolo stretto nel pugno mi rendo che è vero – l’ho ritrovato! L’ho cercato più per disperazione che per convinzione, sono salita quassù solo per dire che ci avevo guardato, solo per seguire una sensazione, un richiamo istintivo che nulla aveva a che fare con la mia razionalità ma che mi avrebbe permesso di andare via da qui più serena, e invece l’ho trovato davvero! L’incredulità è così forte che mi travolge come un’onda improvvisa e mi metto a ridere da sola, continuando a stringere nella mano la mia coccinella arancione come se temessi di vederla volare via. Scendo la scala della torre di corsa ripetendomi che è incredibile, e in un attimo sono di nuovo al banco della biglietteria, dove il signore che mi ha lasciata salire su mi vede arrivare di corsa con la mano stretta davanti a me, felicissima: incredibile, guardi! l’ho trovato! l’ho trovato! Apro la mano solo nel momento in cui arrivo davanti a lui, per mostrargli il risultato miracoloso della mia follia e della sua gentilezza unite insieme, e lui ha un reazione che mi lascia di stucco. Si mette a ridere e a parlarmi in portoghese, sembra perfino più contento di me, tocca l’orecchino dicendo qualcosa che deve essere di congratulazioni, poi mi racchiude le mani nelle sue e le bacia, felicissimo. Non avrebbe potuto condividere più sinceramente la sua gioia per questo piccolo miracolo. Mi commuove che lui sia così contento solo perché vede che io lo sono. Lo ringrazio mille volte, lui e l’altra signora, e poi scappo via, verso Luca e gli altri che mi aspettano, col mio tesoro stretto nella mano. Quando la riapro, vedo riflesso sui loro volti lo stupore che deve essere stato il mio nel momento esatto in cui ho raccolto la coccinella dal tetto. Da questo momento, Evora per noi è definitivamente magica. Dopo tutto Lisbona, a pochi chilometri da qui, è la città d’origine di Sant’Antonio, che è il protettore degli oggetti smarriti, e la nostra amica è proprio di Padova, la città del Santo. Coincidenze, certo. Che però ci fanno ripartire più allegri verso la capitale di questa terra bellissima.

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2 commenti

  1. Luca

    Comunque tutta sta scena che hai fatto per farti regalare da noi gli orecchini…non ce n’era bisogno, te li avremmo regalati comunque! Sei andata a ringraziare S. Antonio?

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