Questa volta mi serviva un regalo per una persona molto speciale. Così, dopo aver scartabellato tra tutti i miei libri di maglia, ho deciso che questo orsetto era proprio quello che faceva al caso mio. Morbido, dolce, tenero, tutto da abbracciare e coccolare. Proprio come mia cugina Cristina, alla quale era destinato. Lo avevo adocchiato fin dal primo momento in cui avevo sfogliato il libro di Teddy Bears di Debbie Bliss, un nome una garanzia in fatto di design di toy knitting. Mi aveva colpita subito per quella sua aria così tenera e “huggable”, e soprattutto per il suo aspetto da tipico orsetto tradizionale inglese, che è il massimo secondo me quando vuoi realizzare qualcosa di veramente prezioso. Così ho tirato giù tutte le mie scatole di lana per scegliere colori e spessori dei filati – una fase del lavoro che mi piace particolarmente – e mi sono messa all’opera per preparare la mia sorpresa.
Da una prima occhiata alle istruzioni mi era sembrato tutto chiaro, ma andando avanti ho capito che il progetto era meno semplice del previsto. E’ vero che tendo ad escludere istintivamente qualunque pattern dove non sia visibile in maniera immediata almeno un po’ di abilità tecnica di realizzazione – se non è una sfida non è divertente per me, diciamolo – ma questo progetto mi ha sicuramente impegnata più del previsto. Le varie parti dell’orso – lavorato con ferri di 3,5mm – sono state facili da fare, i problemi sono arrivati al momento dell’assemblaggio. Diversamente da altri animali che ho fatto in precedenza, dove la forma era sempre ottenuta tramite calati e cresciuti durante la lavorazione, qui sia gli arti che la testa e le orecchie sono composti da diversi piccoli pezzi da cucire insieme, il che ha richiesto molto tempo, e molta precisione, perché il tutto avesse un aspetto finale realistico e senza tracce evidenti di giunzioni e fermature. Dopo il corpo, il cappello e le scarpine sono state semplici da fare, sempre con ferri di 3,5 mm e lana sottile color avorio e azzurro, ma la cosa che mi ha messa maggiormente alla prova è stata sicuramente la camiciola da notte. La costruzione è effettivamente particolare, con lo scollo a interrompere il davanti e il dietro da proseguire separatamente, e poi le maniche da realizzare raccattando le maglie all’altezza delle spalle, però alla fine è risultata fattibile. La parte complicata però era dovuta al fatto che le righe verticali si ottengono con la lavorazione in traverso, quindi si comincia da un fianco e si procede verso il centro fino all’altro lato cambiando continuamente gomitolo per ottenere le strisce di diversi colori. Praticamente staccavo e riattaccavo il filo ogni 2 o 3 ferri, e ad un certo punto avevo i gomitoli raddoppiati sulle due parti uguali da portare avanti separatamente, con una tale miriade di fili laterali da fermare da far disperare un santo… Più che difficoltosa, direi che è una tecnica di lavorazione molto rallentata e un po’ frustrante, perché si perde tanto tempo e sembra che il lavoro non cresca mai. Per realizzare un pezzo di queste dimensioni in un solo colore si impiega neanche un quarto del tempo che mi è servito per fare questo, ma di sicuro l’effetto finale non è altrettanto bello. Cucire insieme tutto in maniera precisa è assolutamente indispensabile, perché poi si devono riprendere le maglie dello scollo per fare il costurino per i bottoni e il colletto, e se tutto non è esattamente dove dovrebbe essere le cose possono diventare un po’ complicate… Per fortuna tornava tutto alla fine, così quando ho attaccato i pom-pon colorati e ho vestito l’orsetto mi sono sentita assai soddisfatta del risultato. E’ venuto come speravo, e molto somigliante a quello del libro di Debbie, il che mi ha resa ancora più contenta dopo tanto impegno. Anche le knitters di Ravelry mi hanno fatto tanti complimenti per questo progetto, ma loro sono sempre squisite, si sa. Comunque, la mia vera ricompensa è arrivata quando ho visto la gioia di mia cugina nel momento in cui lo ha ricevuto e lo ha abbracciato forte a sé, contentissima di questo piccolo regalo fatto apposta per lei. Vale la pena affrontare cento volte queste piccole difficoltà per fare felice una persona speciale come lei, e anche se in alcuni momenti questo progetto mi ha fatta tribolare più del previsto, lo rifarei mille volte per vedere quegli occhi brillare. E poi, io l’ho fatto azzurro, hai visto mai che porti bene…
Domenica 21 giugno: Dublino – Sandycove – ritorno a casa
Quest’ultima mattina dublinese si presenta grigia, ma non fredda. Prepariamo tutte le nostre cose e depositiamo i bagagli nella stanza dell’hotel adibita a questo servizio prima di uscire per la nostra passeggiata in cerca della colazione. E’ presto, è tutto chiuso e c’è un grande silenzio in giro, cosa che ci sorprende ancora una volta in una capitale così importante.
Passeggiamo tra le strade ormai quasi familiari, pioviccica appena e l’atmosfera è incredibilmente romantica. Camminando verso O’Connell Bridge scopriamo a breve distanza una dall’altra un paio di mattonelle di ottone fissate sul marciapiede che ricordano due delle tappe della giornata di Leopold Bloom in Ulysses, con tanto di silhouette in rilievo e citazione dall’episodio del libro.
Sono due delle tappe che i fan di Joyce ripercorrono il giorno di Bloomsday,
quando ritracciano in una giornata lo stesso percorso che lui fa nel romanzo, fermandosi proprio in quel luogo preciso a leggere quel particolare brano della storia. Non sapevo che avessero addirittura sistemato queste mattonelle commemorative lungo il percorso, e sono davvero molto contenta di averne scovate alcune, è un po’ come aver partecipato al Bloomsday di quest’anno, anche se con alcuni giorni di ritardo.
Un altro regalo che Dublino mi fa spontaneamente e generosamente. Continuiamo fino a Grafton Street, la via dei negozi, tutto è tranquillo anche qui e solo una bancarella di fiori colorati già aperta sembra confermare che un altro giorno è ormai cominciato.
In una traversa scopriamo l’ingresso del Gaiety Theatre , il teatro più antico della città, con una bellissima pensilina esterna in ferro battuto decorata da maschere in ottone e l’aria di un luogo speciale. Peccato che sia troppo presto e non ci sia possibilità di fare un giro all’interno, deve essere molto interessante. All’esterno troviamo comunque qualcosa che ci regala un sorriso. Sul marciapiede sono state inserite alcune placche in bronzo con le impronte di artisti importanti che si sono esibiti qui, e una di queste porta impresso il calco delle mitiche mani di Luciano Pavarotti. Grandi, paffute, allegre. Fanno venire nostalgia solo a toccarle.
Torniamo indietro piano piano e alla fine scegliamo un bel caffè centrale per la nostra ultima colazione, scoprendo che all’interno è già pieno di persone. Il menu è ricco e il bancone dei dolciumi è stracolmo di brioche e torte di mille tipi, ma dopo un momento di esitazione lasciamo perdere e restiamo fedeli ancora una volta alla nostra Full Irish. E’ l’ultima occasione che abbiamo per gustarla, e per sentirci veri irlandesi per un giorno ancora.
Il locale è grande e bello, con arredi liberty e luci discrete, e il cibo è ottimo. Dopo colazione usciamo di nuovo per strada, non piove più, e decidiamo di provare a raggiungere la più vicina stazione ferroviaria per informarci sugli orari per raggiungere Sandycove. Sappiamo che dobbiamo tenere ben presente l’orario della navetta per l’aeroporto, ma Luca ha insistito per andarci almeno ad informare perché sa che questo è un altro dei miei sogni da tanto tempo, e dato che siamo qui vuole provare a realizzarlo. Il biglietto del DART costa 8,50€ a testa A/R, parte di lì a pochi minuti e in circa mezzora arriviamo a questa piccola località di mare a circa 8 km a sud di Dublino.
Una volta scesi dal treno non abbiamo bisogno di chiedere nulla, fuori dalla stazione è appesa una piantina dettagliata della zona con il percorso tracciato col pennarello rosso lungo la via che va da qui alla “Joyce Tower”.
Ci incamminiamo sul marciapiede deserto, l’aria è grigia ma non piove, e tutto mi pare bellissimo. Superiamo la chiesa di St. Joseph,
piena per la messa domenicale, e più avanti notiamo un negozio di abbigliamento che ha in vetrina due manichini che indossano eleganti abiti in stile primi del novecento.
Deliziose tracce di un Bloomsday recente, ovviamente. Arriviamo sul lungomare, che è davvero lungo e spettacolare, e poco dopo la intravediamo chiaramente, rotonda e tozza là in fondo, in mezzo al verde di un ciuffo di alberi, solitaria e inconfondibile. La Martello Tower. Quella di Bloom e Stephen Dedalus, quella del primo capitolo di Ulysses, dove tutto comincia, e dove Joyce ha soggiornato davvero per un breve periodo nel 1904, ospite di alcuni scrittori suoi amici.
La guardo da lontano e non mi sembra vero. Sono proprio qui. Il cielo grigio crea uno sfondo monocromatico da vecchia foto in bianco e nero alla linea curva della baia di Dublino, l’aria è umida, il vento alto ammassa piano altre nubi.
Eppure, incredibilmente, quando arriviamo al limite degli scogli vicino alla torre vediamo un gruppetto di adulti e ragazzini in costume che stanno facendo il bagno in una piccola caletta rocciosa. Sarà anche giugno, ma ci saranno sì e no 13 gradi oggi, e il sole sembra un concetto decisamente astratto in questo momento. Potere dell’abitudine… Mi stringo nella mia giacca, incredula alla vista di tanta coraggiosa follia balneare, mentre Luca si diverte a farmi una foto così infreddolita con sullo sfondo quegli eroici bagnanti che continuano a fare tuffi.
Distolgo lo sguardo da loro per non congelarmi del tutto, concentrando la mia attenzione sulla parete rotonda che si avvicina davanti a noi. La strada finisce proprio di fronte all’ingresso della torretta fortificata, a pochi metri dal mare immobile.
La posizione è strategica in effetti, e soprattutto fantastica. Pare che queste torrette, costruite in quantità nell’800 in Irlanda e nel Regno Unito per difendersi da un eventuale tentativo di invasione da parte delle armate napoleoniche che non ci fu mai, siano state spesso utilizzate nel 900 come vere abitazioni in affitto, approfittando del fatto che all’interno sono ampie e ben organizzate, sicure, e solitamente posizionate in luoghi di particolare attrattiva dal punto di vista panoramico oltre che storico. Somigliano a fari bassi e grassottelli, senza la lanterna, ma con su la corazza da piccolo soldato coraggioso. La torre da vicino è più grande di quanto pensassi, non è alta ma ha una base ampia, e sulla parete dal lato della strada troviamo l’ingresso del piccolo museo nel quale è stata trasformata dagli ammiratori di Joyce. All’interno sono conservati oggetti appartenuti al grande scrittore, prime edizioni rare, lettere autografe, fotografie, curiosità. Purtroppo la saracinesca è chiusa, oggi è domenica e la time table dice che il Museo (7,50€ a testa) aprirà solo nel pomeriggio alle 14,00. Non potremo restare, perché tra la visita della torre e il viaggio di ritorno a Dublino rischieremmo di non arrivare in tempo alla navetta delle 5 per l’aeroporto, ma non sono troppo delusa, qualunque cosa possa essere contenuta nella Martello Tower non potrà mai emozionarmi più di quello che c’è all’esterno.
Qui fuori sono ambientate le famose scene che hanno reso mitici questi luoghi, lo Strand della passeggiata di Stephen Dedalus che finge di essere cieco, la baia lì vicina dove Buck Mulligan nuota, la spiaggia dove incontriamo Bloom la prima volta e dalla quale, chiunque se la senta di provarci, si imbarca con lui nella sua incredibile avventura di un giorno, di una vita, di un’epoca. Mi sembra di camminare su quel che resta del set di un film, che in realtà non è altro che il mio personalissimo film, fatto delle immagini che la mia mente vedeva prendere forma mentre leggevo quelle pagine. E mi pare di risentirne i profumi, i suoni, l’aria, intanto che l’orizzonte grigio del mare del nord si stende davanti a noi come un fondale di scena perfetto. Sono contenta che siamo riusciti a venire fin qui, anche se non possiamo entrare nella torre non fa nulla, questa è l’emozione che cercavo, ora lo capisco esattamente, è per queste sensazioni che sono arrivata fin qui, per vedere se le avrei provate davvero o se sarei rimasta delusa, e invece no. Qui ho trovato quello che mi aspettavo di trovare in questo luogo, anche l’ultima prova è stata brillantemente superata da questa terra magica, posso raccogliere tutto con gli occhi e portarlo via con me sentendomi più che soddisfatta. Ripercorriamo il lungomare grigio e senza vento, e ci soffermiamo a leggere l’iscrizione sulla pietra posta accanto all’albero che è stato piantato qui nel 1983 in occasione del centenario della nascita dell’autore di Ulysses.
Mi sembra bellissimo che un intero paese ricordi e celebri con tanta dedizione non un politico o un militare, ma un artista della letteratura, uno scrittore, un rivoluzionario delle parole. Uno che da questo paese se n’è andato e non c’è più tornato neppure da morto, e che invece qui pare essere dappertutto. Riprendiamo il treno e siamo di nuovo in città poco dopo l’ora di pranzo. Ora c’è molta gente in giro, i negozi sono aperti e c’è traffico per le strade, un bel movimento. Torniamo verso Temple Bar
e capitiamo davanti a un incredibile negozio di articoli per la pesca che farebbe la felicità di mio fratello. La cosa più bella è l’insegna, dipinta sul muro di mattoni rossicci con pittura colorata come si usava un tempo nei piccoli paesi inglesi, una meraviglia, e non solo per gli appassionati di carpe e lucci.
Passiamo un’ultima volta a salutare il Trinity, poi entriamo in un grande negozio di Carrolls’ e acquistiamo dei pensierini da portare a casa, tra i quali alcuni segnalibri con ciondoli celtici e un paio di pupazzetti per i nostri nipotini. Quindi torniamo verso O’Connell Street ed entriamo da Eason, una delle librerie più grandi della città. Facciamo un giro nei vari reparti, e alla fine saliamo al piano superiore e pranziamo alla caffetteria self service, con zuppa calda e sandwich leggeri. Un cameriere molto gentile ci chiede di dove siamo e cosa abbiamo visto nella nostra vacanza, ed è piacevole condividere ancora una volta la nostra esperienza irlandese con qualcuno del posto, è probabilmente l’ultima volta che abbiamo l’occasione di farlo e non ci sottraiamo affatto a questa consuetudine che ci è tanto piaciuta qui. Gli raccontiamo delle cose viste e delle città visitate, e dell’anniversario di matrimonio naturalmente, e di quanto ci siano piaciuti gli irlandesi, e lui pare molto contento. Restiamo un po’ seduti a riposarci e chiacchierare tranquillamente, facendo finta che non stiamo per prendere un aereo per lasciare questa città bellissima. Invece alla fine dobbiamo uscire dal nostro rifugio, e tornare verso il Celtic Lodge,
dove il bus navetta (gratuito, incluso nel costo della stanza) ci accompagna di nuovo all’aeroporto. Facciamo subito il check in e ci sistemiamo nella sala d’aspetto in attesa del nostro volo delle 20:05, che pare sarà affollato da molti altri viaggiatori che rientrano su Pisa. Parliamo per un po’ con una coppia di fiorentini, hanno fatto un giro con l’auto e sono stati anche in Irlanda del Nord, ma non hanno amato affatto Dublino, che definiscono noiosa. Non possiamo essere d’accordo su questo giudizio, neppure un po’. In realtà noi non vediamo l’ora di tornarci, a Dublino, e restarci un po’ più di tempo per poter visitare come merita questa capitale vivace e vivibile allo stesso tempo. Ci siamo rimasti troppo poco, decisamente, ma per una volta almeno abbiamo la sensazione che i giorni non siano volati via troppo in fretta. Sarà che li abbiamo riempiti di cose ed emozioni più che potevamo, o che ci siamo trovati così bene in questa terra da esserci sentiti a casa fin da subito, ma di fatto abbiamo l’impressione di essere qui da molto tempo, e questo rende ancora più difficile dover andare via. Ci mancherà l’Irlanda. Ci mancherà la sua gente semplice e accogliente, la sua genuinità, il suo cuore. Ci mancheranno i suoi panorami infiniti, le sue 40 sfumature di verde, le pietre, i laghi e le scogliere immense a picco sull’Oceano. E ci mancherà l’Oceano, quello vero, che si può incontrare solo qui. Ma probabilmente la cosa che ci mancherà di più sarà il cielo d’Irlanda, l’azzurro intenso dove corrono veloci nuvole bianche di luce e grigie di pioggia, soffiate dal vento che vola pazzo e libero sulle antiche pianure verdissime fino al mare. Ci mancherà tanto che dovremo tornare qui molto presto. Fino a quel giorno, faremo tesoro di questo bellissimo Irish blessing , per ricordare in modo esatto la meravigliosa terra di Erin e il suo spirito magico. Yes !
May the road rise to meet you,
May the wind be always at your back,
May the sun shine warm upon your face,
The rains fall soft upon your fields and,
Until we meet again,
May God hold you in the palm of His hand.
Sabato 20 giugno : Dublino
Alla fine la notte è stata tranquilla anche qui, nonostante tutto. Ci prepariamo e usciamo abbastanza presto, siamo impazienti di cominciare questa giornata in città. Visto che non abbiamo la colazione compresa nella prenotazione cerchiamo un posto dove mangiare qualcosa, e ne troviamo uno molto vicino alla nostra Guesthouse che ci sembra perfetto. Si chiama Italian Connection, è un piccolo locale stretto e lungo con le pareti decorate da affreschi dai colori pastello nei quali sono riprodotti famosi monumenti italiani, dal Colosseo al Duomo di Milano alla Torre di Pisa. Sembra un luogo carino e ordinato, così entriamo e richiediamo la nostra Full Irish a una ragazza già indaffarata. Un paio di signore stanno prendendo un cappuccino ad un tavolo in fondo, un uomo in giacca e cravatta legge il giornale da solo vicino a noi, pare aspettare qualcuno e infatti poco dopo un altro lo raggiunge e bevono il caffè insieme discutendo delle notizie appena lette. Noi gustiamo la nostra colazione abbondante
– e pure troppo ingombrante, per quel mini tavolino – mentre la voce di Bocelli riempie l’aria del locale dalle casse dello stereo, stabilendo davvero una certa piacevole “connection” con casa. All’uscita facciamo un giro per le vie del centro, praticamente deserte a quest’ora, un po’ perché è presto un po’ perché è sabato e tutti stanno ancora dormendo dopo la notte di festa. Grandi nuvole grigie corrono nel cielo, ma non sembra che pioverà. Il sole compare a sprazzi, l’aria è piacevole e la luce chiarissima. Raggiungiamo il Trinity College
con un po’ di anticipo, impazienti di cominciare la nostra visita guidata delle 10,40 (10,00 € a testa). Ci accompagna James, un ragazzo molto simpatico e bravissimo, laureando del college, che arrotonda facendo la guida per i turisti. Parla molto velocemente e arricchisce le sue dettagliate spiegazioni con aneddoti e battute spiritose rendendo la visita ancora più interessante
. Ci descrive ogni singolo edificio del Campus illustrandone la storia e la funzione, e siamo sorpresi da molte delle informazioni particolari che ci da. Il luogo è di quelli davvero speciali, personalità notevoli hanno oltrepassato l’arco di pietra dell’ingresso per frequentare le lezioni qui
– o per tenerle agli studenti – e stare in un luogo antico e prestigioso come questo regala davvero una sensazione speciale. Il Trinity fu fondato alla fine del 1500 dalla Regina Elisabetta I e in origine aveva 4 facoltà principali, Scienze e Matematica, Medicina, Legge, Teologia.
Oggi le facoltà dividono i corsi in Arte e insegnamenti Umanistici, Medicina, Scienze e Ingegneria. Ci sono circa 15.000 nuovi iscritti all’anno, provenienti da tutto il mondo. I ragazzi che vogliono entrare si sottopongono a una prova scritta molto selettiva (le richieste ogni anno sono più di 60.000) che si svolge in forma anonima, e solo quelli con i risultati migliori vengono accettati. Da quel momento in poi non devono pagare nulla, ma solo mantenere una media di esami e di voti per garantirsi la frequenza fino al 4° anno, quando si laureano. Una parte dei ragazzi possono vivere direttamente nel Campus, non tutti però perché lo spazio è insufficiente, ma tutti hanno diritto di accesso alla mensa e alle importanti biblioteche a disposizione dei vari istituti.
James ci spiega che alcuni degli alloggi non sono così comodi, sono vecchi e senza riscaldamento – e qui l’inverno è lungo e freddo… – e in molte stanze manca addirittura il bagno in camera, ma se uno ha la fortuna di vivere nell’edificio dove è stato lui, più nuovo e confortevole, allora l’esperienza diventa veramente indimenticabile. Le donne sono presenti al Trinity solo dai primi del 1900, ma ormai sono una parte considerevole e stimata di questa antichissima istituzione. James ci racconta degli esami, della consegna dei diplomi, del ballo di fine anno, dei fantasmi del giardino dove sorgono i due più grandi aceri d’Europa, dei Fellows che sono gli unici ad avere il permesso speciale di camminare sull’erba mentre tutti gli altri devono camminare sui vialetti in pietra, dell’edificio della mensa crollato e ritirato su ben due volte e mezzo, delle statue all’interno del cortile e di mille altre cose.
E’ proprio un ragazzo in gamba, intelligente e preparato, fa venire voglia di avere di nuovo 18 anni per avere la possibilità di provare a cominciare qui la sua stessa straordinaria avventura. Di fatto, chi studia e si laurea in Università meravigliose come questa si porta appresso questa esperienza per il resto della sua vita, non solo perché potrà vantare una laurea al Trinity College qualunque cosa farà dopo, ma perché gli studenti restano per sempre legati a questa istituzione, e continueranno a farne parte anche dopo esserne usciti, come ex studenti o ricercatori o membri delle varie Case e Club sportivi.
Ci vogliono buone qualità di base e tanto impegno, sono anni di duro lavoro quelli che questi ragazzi passano qui, ma la formazione che ne ottengono farà di loro persone speciali per il resto della loro vita. James lo sa benissimo e ne è orgoglioso, lo si capisce dal tono appassionato col quale ci illustra la storia del Campus fino al più piccolo aneddoto, ed è una cosa bellissima vedere un ragazzo così bravo e consapevole dell’importanza della scelta che ha fatto. Lo salutiamo con gratitudine alla fine del Tour di visita, che termina di fronte all’edificio forse più famoso e importante di tutto il Trinity, la Old Library. Qui, oltre a una quantità eccezionale di volumi antichissimi e rarissimi, è conservato il celebre Book of Kells, la più antica versione esistente della trascrizione in latino dei Vangeli Cristiani. La folla di visitatori è notevole, ma il nostro biglietto per la visita guidata del Campus comprende anche la visita alla Library, così non dobbiamo fare tutta la fila per pagare prima di entrare. Attraverso una serie di stanze preparatorie, immerse nella semioscurità per preservare le pagine di antiche pergamene e velli manoscritti, si raggiunge lentamente la sala finale dov’è conservato il Book of Kells. In un tavolo a vetrina sono racchiusi due volumi aperti su pagine straordinariamente dipinte, ricoperte di grafia fitta e precisa, sono pagine dei Vangeli di Giovanni e di Luca risalenti circa all’800 d.C.. Oltre al valore storico e religioso, questo libro ha un grandissimo valore artistico proprio per la bellezza e la ricchezza delle sue illustrazioni simboliche, che supportano le descrizioni delle storie cristiane e ne fanno un capolavoro preziosissimo dell’arte celtica medievale. Il grosso volume originario ha subito danni gravi nel corso dei secoli e quello che vediamo oggi è solo una parte – divisa in due sezioni – delle quattro ancora esistenti. Le altre due sono al sicuro e al riparo anche dai visitatori, ma quel che vediamo basta a farci sgranare gli occhi per la meraviglia di fronte a qualcosa che può capitare di vedere molto raramente. L’atmosfera, nonostante la presenza di molte persone, è davvero speciale, si ha la sensazione che questo sia il vero fulcro del Trinity, il luogo dove batte il cuore più antico del College, dal quale parte l’energia che pulsa nei suoi antichi edifici e tiene in vita tutto il resto. Dalla sala del Book of Kells ci spostiamo in un altro luogo spettacolare che aspettavo di vedere con impazienza, la Long Room. Una immensa galleria lunga più di 65 metri, disposta su due piani aperti verso il corridoio centrale coperto da una volta a botte di legno scuro, lungo il quale sono disposte due file di busti in marmo che rappresentano importanti scrittori e studiosi. In questa galleria infinita le alte pareti sono completamente tappezzate da più di 200.000 volumi antichi rilegati in cuoio disposti su scaffali di legno scuro, uno spettacolo da lasciare senza fiato. I volumi sono tutti originali e risalgono a diversi secoli addietro, e sono a disposizione per la consultazione da parte degli studenti del College. Pochi di loro però approfittano di questo privilegio speciale, per tre motivi fondamentali che James ci ha spiegato chiaramente. Il primo motivo siamo noi in effetti, o meglio, il fiume ininterrotto di turisti che vengono a visitare questo luogo straordinario in ogni mese dell’anno rendendolo affollato e rumoroso, condizioni ben poco adatte alla concentrazione silenziosa necessaria per un serio studio universitario. Il secondo motivo è legato al tipo di informazioni contenute in questi antichi volumi, soprattutto quelle di tipo scientifico, legale o medico, che risultano decisamente datate ormai e quindi di scarsissima utilità pratica per uno studente del 2009. Ma il terzo motivo è forse quello più sorprendente, e assai curioso. I volumi sono sistemati negli scaffali secondo un criterio davvero particolare, non in ordine alfabetico per autore o a sezioni divise per argomento, ma… per dimensione del volume. Nei piani bassi si trovano i tomi più grossi, e a salire a mano a mano sono sistemati i volumi di misura sempre più piccola. Non c’è altro criterio che questo per la loro archiviazione, per cui è facile immaginare che trovare proprio il libro di cui si ha bisogno tra oltre 200.000 esemplari diventa impresa assai ardua… persino conoscendone le misure esatte. Resta comunque un tesoro preziosissimo, che lascia senza parole solo a guardarlo. Oltre ai libri, anche mostre di oggetti e documenti antichi si tengono periodicamente in questa galleria straordinaria, mentre alcuni pezzi sono esposti qui in maniera permanente, e tra questi c’è sicuramente uno degli strumenti più belli che mi sia mai capitato di vedere. E’ una piccola arpa in legno di quercia e salice che risale al 1400, scolpita e decorata a mano, con le corde sottili in ottone ormai un po’ scurite. E’ una delle tre sole arpe gaeliche originali rimaste al giorno d’oggi e la più antica presente in tutta l’isola, ed è quella che è servita da modello quando è stato scelto il simbolo che avrebbe dovuto rappresentare l’Irlanda. E’ presente sullo stemma nazionale, sulle monete e sulle banconote irlandesi, ed è anche la stessa arpa rappresentata sull’etichetta della birreria Guinness. E’ assolutamente straordinaria, piccola ed elegante, raffinata e perfetta, di una bellezza antica e misteriosa che pare far rivivere con la sua sola presenza un intero mondo perduto. Non si possono fare foto qui, ma non importa, il suo ricordo luminoso rimarrà vivido nella mia mente per sempre. Dopo la visita del College usciamo nuovamente in strada e torniamo a piedi verso Marrion Square, per entrare nel parco che a quest’ora è aperto. Qui, in un angolo che guarda verso la via di fronte a casa sua, c’è una fantastica statua di Oscar Wilde semisdraiato su una roccia, in una posizione rilassata e tipicamente dandy, abbigliato con vestaglia di velluto verde, pantaloni grigi, scarpe allacciate, e anelli alle dita.
La cosa che colpisce di più oltre alla posa inconsueta è certamente l’incredibile somiglianza della statua con il vero Oscar. Sarà l’effetto dato dagli abiti perfettamente riprodotti nei minimi dettagli, compresi i colori e i tessuti, o il modo in cui volta la testa e abbozza un sorriso tra il divertito e l’insolente osservando i passanti con occhi acuti e ironici, non so, fatto sta che trovarsi qui davanti fa una certa impressione, pare di stare proprio davanti a lui in persona, e ti viene voglia di salutarlo e sedergli accanto a chiacchierare un po’ e guardare chi passa. Di fronte alla statua, oltre il vialetto, ci sono due blocchi di pietra nera sormontati da due piccole figure in marmo, una maschile e una femminile. Le pareti dei blocchi neri sono completamente ricoperti di frasi scritte col pennarello bianco, che non sono altro che alcuni tra i più famosi aforismi di Wilde.
Un angolo molto suggestivo, che anche a Oscar sarebbe piaciuto. Dopo un giro nel piccolo parco ci spostiamo di nuovo, attraversiamo il bellissimo e candido Ha’Penny Bridge
, vicino al quale troviamo la panchina sulla quale siedono le statue di bronzo di due donne che si riposano e chiacchierano un po’ dopo aver fatto la spesa
, in un classico atteggiamento irlandese di familiarità e condivisione. Continuiamo attraversando un enorme gruppo di ragazzi in fila sul marciapiede pronti a prendere autobus e taxi per andare a Slaine al concerto degli Oasis, e arriviamo fino dalla parte opposta della città, in Parnell Square, dove vogliamo visitare il Museo degli scrittori.
Il biglietto costa 7,50€ a testa e comprende un’audioguida nella quale una voce ci racconta tutti i dettagli degli oggetti raccolti nel museo, dai ritratti ai libri, dal pianoforte di Joyce
a vecchie macchine da scrivere, da lettere e foto a prime edizioni autografate di drammi e raccolte di poesie. Il museo è piccolo in fondo, sono poche sale piene di oggetti racchiusi in teche e vetrinette, ma è ben articolato e organizzato, e c’è la bella atmosfera di quei posti dove si sente che si conservano cose speciali.
All’uscita dal museo ci fermiamo in un O’Brien’s a fare un piccolo break con sandwich misti e tè caldo
, e poi ci rimettiamo in marcia verso la Christ Church Cathedral, la più antica chiesa di Dublino la cui fondazione risale circa all’anno mille. C’è molta gente e l’ingresso è aperto solo per i fedeli perché è appena cominciata la messa, così facciamo una sosta nella piazza per ammirare la struttura almeno dall’esterno, con le sue torrette squadrate, le finestre a punta e i blocchi di pietra grigia austera e silenziosa.
Da lì continuiamo a passeggiare fino alla vicina cattedrale di St Patrick, che è forse la più importante e amata della città. Anche questa è chiusa per via della messa purtroppo, così non si può acquistare il biglietto per fare il giro all’interno, ma ammiriamo l’esterno elegante e il bellissimo prato che la circonda, rendendola una specie di isola di spiritualità nel bel mezzo della vivacità della capitale.
Lentamente proseguiamo fino al Castello di Dublino per ammirarlo intanto dall’esterno, con le sue torri medievali e gli antichi palazzi oggi utilizzati per le occasioni ufficiali di Stato.
In uno di questi edifici ha sede la famosa, Chester Beatty Library uno dei musei più importanti di Dublino dove è conservata quella che era la collezione privata di antichi manoscritti, papiri, dipinti, stampe e miniature raccolti dall’omonimo Sir Chester Beatty nell’arco della sua vita, ed oggi di proprietà dello Stato irlandese. Purtroppo l’orario di apertura è già terminato, ma questo è sicuramente uno dei posti che visiteremo durante il nostro prossimo soggiorno in questa bellissima città. Per stavolta ci accontentiamo di un giro esterno, che ci riporta piano piano verso Grafton Street e il centro. Attraversiamo nuovamente il meraviglioso parco di St Stephen Green con il suo laghetto
e i viali bordati di piante verdissime e passiamo a salutare il busto di Joyce,
poi anche se è relativamente presto, ci decidiamo a cercare un posto dove cenare e riposarci un pò. Ci fermiamo da Buskers in Fleet Street, un piccolo locale dove Luca veniva a mangiare tanti anni fa, e ci concediamo pollo al curry con riso basmati, fish and chips (che proprio mi andavano) e la solita deliziosa Guinness freschissima. Quando usciamo facciamo ancora un giro per Temple Bar, dove i musicisti già cominciano a tirare fuori chitarre e microfoni, mentre i pub si animano di vita e chiacchiere col bicchiere in mano.
I negozi sono aperti così ne approfittiamo per prendere un paio di regali da portare a casa ai nostri familiari, in uno di quegli store tipici dove il 95% degli oggetti da acquistare ha almeno qualcosa di verde e la scritta Guinness da qualche parte. La luce comincia appena ad affievolirsi nonostante siano le 9,30 passate, la gente passeggia e parla fermandosi a formare capannelli di ascolto di fronte ai cantanti e ai gruppi che si esibiscono live,
e mi pare che questa della musica per strada da vivere quotidianamente sia un’abitudine fantastica che da noi manca veramente, un modo di avvicinare le persone non solo a un elemento culturale importante, ma anche tra loro, trasformando il tempo in qualcosa di prezioso e vivo invece che qualcosa da far passare a vuoto. Alla fine, stanchi e con gli occhi pieni di immagini raccolte in una giornata lunga e intensa, rientriamo verso la nostra piccola guesthouse nella traversa di O’Connell Street.
Visto che la nostra navetta per l’aeroporto è alle 5 del pomeriggio chiediamo se domattina possiamo lasciare le valigie per un po’ mentre andiamo in giro in città, e la ragazza della Reception ci conferma che non c’è problema, hanno una stanza dove tengono in deposito i bagagli dei loro ospiti fino alla loro partenza quindi ne potremo approfittare. Ne siamo molto contenti perché questo ci permetterà di sfruttare ancora qualche ora di visita liberi da pesi prima di riavviarci verso l’aeroporto. Radunare le cose e sistemare i bagagli è la cosa più triste che abbiamo fatto finora, ma cerchiamo di farlo pensando che abbiamo ancora quasi un giorno intero da passare qui prima di ripartire. E abbiamo intenzione di sfruttarlo al massimo.


