Il mondo di Sally

L'importante non è cosa guardi, ma cosa vedi
 
Il mondo di Sally

Spillo

Spesso i piccoli progetti sono i più piacevoli. Quando poi il pattern è una creazione della magnifica Julie Williams il risultato non può certo deludere, e questo piccolo riccio ne è la prova evidente. Ho acquistato le istruzioni per realizzarlo dal sito di Julie e ho ricevuto il PDF via e-mail in pochi minuti, scoprendo come al solito indicazioni chiarissime da seguire, ben dettagliate e accompagnate da una serie di foto esplicative che rendono le varie fasi del lavoro davvero semplici. Il costo è irrisorio, poco più di 1 Euro, e il gesto è reso ancor più piacevole dal fatto che Julie dona una parte del ricavato della vendita di questo pattern alla British Hedgehog Preservation Society, un’associazione inglese che protegge l’habitat e cerca di garantire la sopravvivenza di queste piccole, utilissime creature.

Si comincia a lavorare dal lato posteriore del corpo, per il quale ho utilizzato uno scampolo di lana marrone un po’ grossa e ferri di 3,75mm montando le maglie per la base e procedendo con vari giri di aumenti via via che lavoravo per ottenere una sezione tondeggiante. Si lavora tutto il pezzo a maglia rasata, ma in questo caso il lato del rovescio diventa il diritto del lavoro, per avere un effetto finale ondulato della superficie che renda meglio l’idea della pelliccia spinosa del riccio. Alla fine del corpo si cambia filato e si passa a lavorare la testa con la lana color nocciola, con la quale si cominciano a scalare le maglie per ottenere la forma allungata e appuntita del muso.

Una volta arrivati in cima si passa il filo tagliato lungo nelle poche maglie rimaste e si chiude il cerchio, creando così la punta del naso. Da qui, con lo stesso filo nocciola si cominciano a chiudere i due lembi del muso e poi del corpo con cucitura invisibile a tappezzeria, imbottendo a mano a mano l’interno in maniera da dare una bella forma rotonda e paffuta all’animale. Il corpo del riccio ora è completo e si passa alle zampe, che sono davvero piccole e veloci da fare. Si montano 3 maglie e si procede con aumenti e diminuzioni per un totale di 8 giri, ottenendo alla fine un piccolo rombo che si chiude poi con l’ago a formare una pallina di lana. Vista la dimensione minima non è neppure necessario imbottirla, basta racchiudere all’interno del piedino una goliata di filo dello stesso nocciola invece dell’ovatta bianca, che si potrebbe intravedere, perché crei un po’ di volume e permetta alle zampine di sollevare un poco il corpo del riccio.

Si attaccano le 4 zampine sotto al corpo con pochi punti ad ago, si ricamano col filo nero gli occhietti rotondi e la punta del naso, e il gioco è fatto, in poco tempo e con grande soddisfazione per il risultato ottenuto con un minimo sforzo. Se poi, come nel mio caso, il riccio avrà il compito di fare da puntaspilli all’appassionata di cucito che lo riceverà in regalo (come è Spillo per mia mamma), basterà infilargli un po’ di spilli dalla capocchia colorata sul dorso per avere un effetto finale sorprendentemente realistico e simpatico.

Siccome il progetto è veramente facile e piacevole da realizzare, e visto che mia cognata è una ricamatrice provetta di lavori a punto croce, mi ha fatto piacere farne uno anche per lei. Ma dato che in genere mi annoio a ripetermi, per modificare un po’ le cose per lei ho creato Pina, una riccetta con tanto di fiocchetto rosa e fiorellino sulle ventitré che ha avuto altrettanto successo di Spillo. Basta davvero poco a volte, per regalare un sorriso.

Rosso Fiorentino

Già il nome evoca l’atmosfera. Energia, vigore, creatività. Un fuoco che crepita dall’interno e diffonde luce e calore vitale. Però bisogna vederlo, per capire davvero. E per dire di averlo visto bisogna vedere la sua opera più straordinaria, custodita nella Pinacoteca di un borgo medievale capace di rivelarti un frammento inedito della sua bellezza ad ogni nuova visita. Per questo ci siamo tornati volentieri, a Volterra, arroccata a una manciata di curve da noi, ignorando bellamente i vampiri che ultimamente pare bazzichino la zona per accompagnare occhi nuovi ad ammirare la creazione più spettacolare di questo artista del Manierismo italiano.
Che poi, ci sono molti altri pezzi più che validi lungo quel percorso museale, addirittura due magnifici Signorelli proprio in quella stessa sala, di cui uno è un’Annunciazione così raffinata da ricordare la grazia pura di Botticelli. Ma quando poi ti volti e ti ritrovi lì, inondato dalla luce che emana dal miracolo della Deposizione del Rosso, qualunque altra immagine scompare, oscurata da quella meraviglia. Non c’è più nulla intorno, non c’è più tempo, né spazio, né buio. Solo il fascio luminoso che rischiara quella scena potente, in cui i colori incredibilmente vividi non fanno che aumentare l’intensità del dramma rappresentato. Le dimensioni della tela sono imponenti, quasi 4 metri per 2, da rimanerne sopraffatti, se non se ne restasse incantati fin dal primo istante. Ipnotizzati da quella luce vivida, quel cielo terso e chiaro, quell’aria luminosa che sembra portare con sé il presagio della primavera e del suo tepore. Invece, in quell’azzurro limpidissimo, spicca prepotente la protagonista della scena, la Croce, enorme, potente, inamovibile, piantata in terra come un destino già scritto fin dalla notte dei tempi. Così grande da uscire fuori dai limiti della tela, insufficiente a contenerne il senso e le conseguenze per il destino degli Uomini.
La Croce è l’elemento che divide visivamente la scena in due parti, una alta e una bassa, ed è anche il punto fermo attorno al quale ruotano tutti i personaggi che popolano la rappresentazione, in un vortice che cattura e incanta. La parte superiore dell’immagine domina dall’alto, ci si arriva salendo le due scale appoggiate ai bracci di legno spalancati, insieme agli uomini che hanno il compito di mettere in atto quel gesto dolcissimo della Deposizione, e di colpo si percepisce l’intensità emotiva del momento. I movimenti lassù sono convulsi, la tensione è carica di angoscia. I muscoli sono tesi, un vento agitato altera le pieghe degli abiti e dei volti, l’aria risuona di rumori secchi e indicazioni nervose, come le voci di chi cerca di fare quello che c’è da fare mentre la lama del dolore gli sta tagliando il cuore.
Una sola figura se ne sta immobile e muta in tutto quel disordine caotico. E’ quella del Cristo morto, abbandonato tra le braccia indaffarate dei suoi discepoli, inerte, passivo, solo. Un guscio vuoto da cui l’anima si è sfilata via lasciando solo un corpo freddo e grigio, indifferente alla solerzia di chi se ne sta prendendo cura. Nel momento più tragico in assoluto della vita di Cristo, il Rosso riesce a rappresentare la caducità del suo essere un Uomo nel momento in cui questa si rivela definitivamente – la morte.
Il senso reale di questa immagine l’ho trovato anni fa in una piccola frase contenuta in uno dei miei Barnum preferiti: “mai un Dio è stato meno Dio ”. Ecco. E’ proprio così.
Ma bisogna ritrovarsi lì davanti per capirlo con esattezza, nel buio della sala e nella luce della grande tela, di fronte a quel corpo morto, per comprendere: se quello era il Figlio di Dio fattosi Uomo per scendere sulla Terra a salvare gli Uomini, certo adesso non resta più nulla di divino in quel corpo senza vita. Dei tre vertici del triangolo della Trinità quello è quello mortale, la cui finitudine terrena è indispensabile per completare l’Assolutezza di Dio. Questo è l’istante in cui il destino è compiuto, tutto è accaduto, e anche quel cielo così limpido si rivela ora per quello che semplicemente è: un luogo vuoto, e muto.
Lo sguardo scende piano da lassù insieme a quel corpo esanime, fino ai piedi della Croce, dove la scena si presenta completamente diversa. Qui non ci sono rumori né voci, l’agitazione di chi ha un compito da svolgere lascia il posto all’immobilità, il silenzio dilaga. Se in cima alla Croce gli uomini si davano da fare gridando, ai suoi piedi le donne sono ammutolite dal dolore, il capo chino sotto il peso della tragedia. Le Marie, rigide nei loro abiti dai panneggi scolpiti dalla luce, si stringono immobili alla Madonna, pietrificata in un dolore infinito. Il Battista, giovane e disperato, nasconde il volto nelle mani incapace di sopportare la vista di quella realtà inammissibile. I gesti sono minimi, i suoni spariti, tutto è compiuto e non si può più tornare indietro.
Unico elemento animato della scena, la Maddalena, che cade in ginocchio ai piedi della Croce, con il meraviglioso abito rosso fiamma che le fluttua intorno al corpo piegato dal dolore, le braccia che stringono disperatamente le gambe della Madonna, come per cercare in Lei un Perdono per questo errore fatale che possa racchiudere l’Umanità intera.
E’ bellissima, questa Maddalena viva, che piange e prega e libera la sua emozione per noi nel momento in cui tutti gli altri sono cristallizzati nel vuoto dei sentimenti rasi al suolo dalla falce della morte. E’ bellissima per il suo gesto così umano, sentito, e per come è rappresentata, con l’abito scarlatto che la avvolge con sensualità, la cintura dorata, i capelli biondi acconciati con raffinata eleganza, la pelle di alabastro che si intravede dal profilo del volto. Perché in effetti non si vede del tutto, quel viso, la Maddalena è voltata verso la Madonna in un modo che lascia scoprire solo l’orecchio e una piccola porzione della guancia, mentre sia gli occhi che la bocca restano in parte nascosti. Eppure è così che te la ricordi, dopo. Bellissima. Meravigliosa come una luce salvifica in mezzo a tutto quel dolore, quell’angoscia atroce, quello smarrimento dell’anima. La sua bellezza e il suo gesto vitale riaccendono la fiamma della speranza in quel vuoto senza più Dio, e istintivamente vai a cercare la risposta dove hai bisogno di trovarla, nel volto del Cristo morto. E a guardare bene, lassù, quello che sembra di vedere, è un piccolissimo sorriso.

Missione compiuta

Questa storia non la dimenticherò, è sicuro. Nell’era in cui la tecnologia ha fatto di qualunque luogo del pianeta il paese accanto, quei 33 minatori inghiottiti dalle viscere della terra sono diventati i vicini di tutti, e l’ansia per la loro sorte un sentimento comune al mondo. Da quando li hanno individuati ancora vivi là sotto, 17 giorni dopo il crollo della miniera, non c’è stato giorno in cui sia riuscita a non pensare a quegli uomini prigionieri dell’incubo più terrificante, ammassati in una grotta buia e senz’aria, con 700 metri di roccia sopra la testa e il pericolo continuo che una nuova frana potesse seppellirli per sempre. Per 70 infiniti giorni. A chiedersi se e quando, lassù, sarebbero riusciti nel miracolo di riportarli alla luce. Se lo chiedevano anche le loro famiglie, di sopra, sgomente di fronte alle immagini sfocate di quei visi spettrali e a quelle voci che salivano dall’abisso alterate dai microfoni e dalla paura. Mogli, madri, figli angosciati ma determinati a non muoversi di lì fino al punto di metterci le tende, su quella montagna maledetta, e restare lì giorno e notte a mangiare e dormire e pregare fino al momento in cui tutto fosse finito.
E alla fine ce l’hanno fatta. Il Piano B, messo a punto dai soccorritori nei 70 giorni trascorsi dall’incidente che aveva sprofondato Los 33 all’inferno, è scattato e le operazioni di recupero sono cominciate. Una specie di gigantesco ragno di legno si è azionato, una ruota che pare quella di un vecchio arcolaio ha iniziato a girare tra gemiti e cigolii metallici, e a srotolare un cavo scuro da un rocchetto enorme. Un filo lungo abbastanza da calare la capsula Fénix fino in fondo a quel cunicolo spaventosamente stretto e buio, a ripescare quegli uomini dall’abisso. Manca l’aria solo a guardarla andare giù, quella stramba navicella un po’ spaziale un po’ giocattolo che sparisce lenta in quel budello strettissimo. Invece lei scivola dritta e liscia come una saponetta, e atterra in mezzo a quel buio roccioso come se toccasse il suolo di un pianeta appena conquistato. A uno a uno i minatori entrano in quell’assurdo ascensore a punta, vengono imbracati e chiusi dentro a quei pochi centimetri di ferro e rotelle, e cominciano la loro risalita verso la vita.
Un quarto d’ora, poco più, tanto dura quel viaggio verso la rinascita. Ogni volta che la capsula si riavvicina alla superficie la sirena della miniera lancia un ululato stridulo che rompe il silenzio teso della notte del deserto. Allora gli uomini di sopra si chinano su quel buco buio e chiamano, gridano, salutano, finché la voce del nuovo uomo in arrivo conferma a tutti che l’incredibile è diventato realtà.
Poi sono ancora applausi, sorrisi, abbracci e lacrime, mentre l’aria fresca accarezza di nuovo la pelle dei salvati – chissà com’è sentire di nuovo l’aria sul viso dopo 70 giorni di inferno. Chissà com’è abbracciare di nuovo un marito, un padre, un fratello, accarezzarlo, stringerlo dopo 70 giorni in cui è vissuto da morto.
I 33 minatori escono da quel buco nella terra uno dopo l’altro in una sequenza che si sgrana lenta e rituale come un rosario, e l’emozione è ogni volta ugualmente intensa e forte, il sollievo si mescola allo stupore e la parola miracolo acquista via via consistenza nel buio acceso di riflettori di quella strana base spaziale dove tutti guardano in giù, perché una resurrezione in diretta non è roba cui capiti di assistere spesso nella vita.
Sarà che per me i minatori sono eroi a prescindere, perché neppure il bisogno di dare da mangiare a un figlio sarebbe mai capace di spingermi nelle viscere della terra, o che, nonostante fossi solo una bimbetta, io quella vocina che piangeva dal profondo di quel pozzo non me la sono mai più scordata. Ma la gioia folle e incredula di quella gente che abbracciava quei figliol prodighi senza colpa a me è sembrata così bella e vera che mi è piaciuto sentirmene contagiare.
Almeno tre lezioni ricorderò, di tutta questa storia.
Che il coraggio è l’essenza dell’esistenza umana.
Che dovrò credere fermamente che ci sarà qualcuno che starà lì a studiare un Piano B per me, quando avrò bisogno di essere salvata.
Che l’importante è avere qualcuno che ci aspetta, fuori.